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Massì, Dio benedica Terence Hill

Il passaggio a Che tempo che fa

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Omaggio dovuto Foto: Omaggio dovuto
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In linea di massima sono contrario alla tv dei ricordi; la nostalgia è una droga leggera con fastidiose controindicazioni. Eppure, quando all'acquario di Che tempo che fa (Raitre domenica prime time) è comparso Terence Hill, quasi ottant'anni, accento umbro-americano, biondo con tutti i capelli, allegramente fiero sulla moto come in “Altrimenti ci arrabbiamo”; be', una zaffata d'emozione è arrivata bella tosta.   So tutto di Terence Hill-Mario Girotti. Dall'infanza in Germania al ritorno in Umbria, dai peplum  dai primi film con Maselli Bolognini, Visconti e Pontecorvo, ai fotoromanzi, alla carriera con Bud Spencer. Credo risulti ancora il secondo italiano più famoso del mondo (il primo è Bud). So della morta del figlio Ross a 16 anni, che l'ha avvicinato alla sacro; so del telefilm di Lucky Luke scritto e diretto dedicato all'amore invicibile per i suoi ragazzi; so della sua passione per Don Camillo e, quindi per Don Matteo. Hill è lo Spencer Tracy della mia generazione. Gli voglio bene a tal punto da averlo bonariamente criticato. Il più grande rammarico della mia vita è avergli fatto, quasi vent'anni fa una lunga e appassionata intervista e averla potuta firmare, per motivi contrattuali, soltanto con lo pseudonimo di “Arturo Bandini”, l'inarrivabile eroe di John Fante. L'altra sera, da Fazio, Terence presentava il suo film Il mio nome è Thomas, in gestazione  da dieci anni girato nel deserto spagnolo d'Almeria teatro dei migliori spaghetti western, soprattuto i suoi. C'era una scena ambientata in un vecchio saloon. Terence, come al solito, sussurrava, ma i suoi occhi azzurrissimi lampeggiavano sui ricordi. Poi c'era Fazio che sventolava i cappelli usati da Hill sui set del mondo: dallo Stetson de Il Mio nome è nessuno con Henry Fonda (il più bel western italiano di sempre) al casco dei Due superpiedi quasi piatti. C'era una sfilza di immagini di vecchi film e di una carriera ricchissima, musiche degli Oliver Onions e Pino Donaggio in sottofondo. Terence aveva l'usuale romanzesca timidezza di sempre; nell'intervista, ovvio, ha parlato più Fazio. Terence ha raccontato però un episodio bellissimo della sua vita blindata: l'esordio delle scazzottate sul set con Bud, col futuro, corpulento, compagno che s'inventò il famoso e assai coreografico  "pugno in testa" con conseguente caduta verticale del colpito. Ma non è stato, diciamo, loquacissimo. Eppure ogni frase, ogni sguardo, ogni sorriso in tralice di Terence Hill era un sospiro di tenerezza. Dopodichè io ho preso i miei bambini e li ho piazzati subito davanti ai varo sketch di Lo chiamavano Trinità. Ridevano delle mie stesse risate…

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