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Intervista a Apostolos Doxiadis

L'ultimo romanzo dello scrittore greco, e un dialogo a ruota libera

PAOLO BIANCHI
PAOLO BIANCHI

Paolo Bianchi è nato a Biella nel 1964. Ha pubblicato "Avere trent'anni e vivere con la mamma" (Bietti, 1997), "Uomini addosso" (ES, 1999), "Il mio principe azzurro" (ES, 2001, con Igor Sibaldi), "La repubblica delle marchette" (Stampa alternativa 2004, con Sabrina Giannini), "La cura dei sogni" (Salani, 2006), "Per sempre vostro" (Salani, 2009), "Inchiostro antipatico. Manuale di dissuasione dalla scrittura creativa (Bietti, 2012). Ha scritto per riviste e quotidiani, fra questi ultimi "Il Foglio". "Il Giornale" e, dal marzo 2010, "Libero". Lavora anche come traduttore letterario.

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Non accade di frequente. Il faccia a faccia con il greco Apostolos Doxiadis, in Italia per presentare il romanzo I tre porcellini (Bompiani, pp. 318, euro 18), comincia con un tono discorsivo e generale, quasi sociologico, per poi virare sul politico. Solo alla fine si passerà alla letteratura. L'intento autopromozionale non è dunque incentrato solo sul tema di un libro in vendita. Di fatto si comincia con la matematica, poiché Doxiadis, fin da ragazzino, ne ha rivelato straordinarie capacità di comprensione. E l'ha utilizzata come materiale narrativo per il suo bestseller Zio Petros e la congettura di Goldbach. Sono intimidito da chi conosce la matematica così bene. Forse dovremmo tutti studiarla di più... «Ma non sono un fanatico della matematica. Ci sono molti modi di coltivare la mente. Bisogna imparare a imparare, imparare a pensare, ma la matematica non è l'unico modo. Platone diceva “Nessuno entri se ignora la geometria”, ma per me la matematica è stata sempre una questione romantica, non così interessante dal punto di vista pratico. Ho incontrato grandi ma- tematici che trovavo stupidi nella vita perché cer- cavano di applicare modelli astratti di pensiero alle cose umane. Attenzione poi al culto della chiarezza. In politica, per dire, la chiarezza totale significa fanatismo». E allora l'innovazione tecnologica? «Uso la tecnologia, non sono luddista o tecnofobo, ma non sono un fanatico. Uso un po' i social, le app che mi servono... Non si può dire che il mondo sarebbe migliore senza la tecnologia, basta pensare agli antibiotici, ai dentisti... Quando ero negli Usa da ragazzo scrivevo alla fidanzata ad Atene e aspettavo la risposta per due settimane, ora parlo con mia figlia con Skype, dall'altra parte del mondo, anche cinque volte al giorno. E comunque il grosso cambiamento nelle comunicazioni è stata la tv». Però possiamo dire che l'Umanesimo è finito? Le professioni umanistiche non sono quasi più retribuite... «No, l'essere umano è molto adattabile. C'è una parte reazionaria in me, ma poi conosco 18enni romantici e li puoi trovare su Facebook». Per mesi i media ci hanno fatto una testa così sulla crisi greca. Lei vive ad Atene, quindi vede le cose. Perché non se ne parla più? Tutto risolto? «Benissimo che non se ne parli più. Abbiamo sopportato i populisti, e siccome la maggior parte sono narcisisti, adorano quando si parla di loro. Quando hanno cominciato a vedere le loro foto sul New York Times o Le Figaro si sono tutti esaltati. Quindi sono contento che abbiano smesso di specchiarsi in giro per il mondo. Un falso mito è stato costruito: quello della nostra povertà. Il mondo ci guardava come dei poveracci. Poi questo governo Tsipras, che è alleato con l'estrema destra di Alba Dorata, ha creato false speranze dicendo stupidaggini, ma alla fine si è visto che Tsipras era stato bravo solo a salvare se stesso. A giugno poteva distruggere la Grecia andando avanti con le sue promesse utopiche, invece ha scelto il totale compromesso, facendo tutto quello che gli ha chiesto Bruxelles, anche peggio di quelli che aveva accusato. E così ha perso il suo seguito». Quanto si è impoverito il Paese? «Nessuno nel pubblico impiego ha sofferto troppo. Il tenore di vita, dicono, è tornato al livello degli anni '80, ma allora mica si stava male. Il lavoro lo ha perso chi era nel settore privato. I politici non hanno fatto nulla per loro, preferendo mantenere le clientele del settore pubblico». Ora parliamo dei Tre porcellini. È la storia di tre fratelli, figli di immigrati italiani negli Usa, che per un grave sgarbo al boss mafioso Tonio Lupo vengono condannati a morire al compimento del 42esimo anno. Perché questo riferimento alla fiaba? «Sono affascinato dalle storie antiche, in senso tradizionalista, potenti nella loro semplicità. Considerato che viviamo in un tempo dove non c'è più il conforto della religione, e io volevo affrontare la questione della morte, non c'era niente di meglio che costruire una vicenda di minaccia alla vita. Mi serviva un cattivo, e il cattivo è Lupo». La trama è complessa e ha usato poco i dialoghi. Come mai? «In effetti, non li uso per definire i personaggi (come Dostoevskij o Jane Austen), ma solo per portare avanti la trama. Oltretutto la narrazione è il monologo di un solo personaggio, il che ha reso meno importante l'uso dei dialoghi». Senza rivelare il finale, le posso chiedere se c'è un intento morale? «C'è una domanda all'inizio: può un uomo cattivo diventare buono? Ecco, diciamo che la risposta è ironica». Qualcuno sostiene che la trama possa essere scritta pure da un software. Che ne pensa? «Per le trame, basta studiare Agatha Christie. C'è un software anche per la musica, per scrivere una fuga, ma ci vuole Bach per sapere davvero come farlo».

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