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Il ritorno di Abbatino alla Magliana: da boss a pentito senza più protezione

Gino Coala
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Alla Magliana, il suo quartiere di origine dove la legge della strada impone di portare “rispetto” alle persone che contano, Maurizio Abbatino è stato il residente più temuto e il più ammirato. Come quello di tutti i capi - che nella Capitale sono sempre “re”, finché qualcuno non gli taglia la testa o gli ruba la corona - anche il nome di Abbatino è uno di quei nomi che non bisogna spendere invano. Ci ho provato, un paio di anni fa, a perlustrare quelle vie, con le case popolari dove si conobbero Enrico De Pedis e Franco Giuseppucci, con le bische e i locali di cui ancora oggi rimane una traccia, fino al famoso bar di via Chiabrera, trasformati ma non ancora non inghiottiti da Bingo e outlet cinesi. E a chiedere notizie del “Freddo”, il soprannome con cui è identificato il suo personaggio nella fortunata serie e nel film “Romanzo Criminale”. Solo sentire pronunciare certi nomi, qui provoca ancora le reazioni più diverse: paura, diffidenza, sbigottimento. Ora, dopo che per trent'anni Maurizio Abbatino ha fatto a meno del suo nome, indossandone un altro per continuare a vivere un'altra vita, quella del collaboratore di giustizia, è costretto a tornare nel suo quartiere, lì dove tutto è partito. Un ritorno da sconfitto. Dileggiato e sicuramente scansato da quelli che un tempo erano “gli amici”, i questuanti, gli ex compagni di scorrerie. Molti dei quali, nel corso degli anni, lui li ha fatti arrestare. Altri sono morti, per lo più ammazzati in una serie di regolamenti dei conti infinita. Dopo la sentenza emessa la scorsa settimana dal Tar del Lazio, che ha respinto il ricorso proposto dal suo legale Alessandro Capogrossi di prorogare le speciali misure di protezione concesse dal 1992 al più importante pentito della Magliana, l'unico ancora in vita - revoca decisa dalla Commissione centrale presso il Ministero dell'Interno, con il parere della Dda e della procura di Roma - Abbatino torna ad essere Abbatino. E gli viene tolto anche il suo nome di copertura, a costo zero per lo Stato. Non sarà più il “re”, e nemmeno il “boss”, ma un vecchio criminale di 64 anni ridotto in fin di vita, affetto da una malattia terminale incurabile. Un perdente, costretto a rientrare in un territorio che non è più il suo. Ma dove anche i muri parlano di lui. Non più per le sue gesta da bandito – «Non so dire quante volte ho ucciso. Ma ricordo i nomi di tutte le mie vittime. Ricordo dov'eravamo. Come ho ucciso e perché l'ho fatto. Ricordo tutto.. tranne il numero» è l'incipit che affida al suo libro-intervista “La verità del Freddo”, che potrebbe diventare anche un film (la Rai si è interessata ai diritti, ndr) – ma per l'infamia di aver “tradito”. E i pentimenti alla Magliana, e nel Mondo di Sotto su cui ha aperto uno squarcio la procura di Roma con l'inchiesta “Mafia Capitale”, non si dimenticano. Si vendicano. Ecco perché, dal momento in cui gli ritireranno i documenti, Abbatino ha deciso di rinunciare a tutto, a partire dalle cure mediche. «Ogni 15 giorni, da trent'anni, Abbatino si reca per la terapia in un ospedale romano, dove ha una cartella clinica con le generalità di quando era nel programma di protezione – spiega Raffaella Fanelli, l'autrice del volume che ne ripercorre la storia – Con questa decisione lui diventa un cadavere ambulante, perché spingerlo a non curarsi è la maniera più pulita di provocarne la morte, senza spargere sangue». Di precedenti tentativi di farlo fuori, Abbatino ne ha denunciati, e forse sventati, vari. Tutti scampati all'ultimo secondo. All'epoca del processo Calvi, come ricordò in un' intervista esclusiva (la prima) a “Chi l'ha visto?”, Crispino, altro suo soprannome per via della capigliatura, denunciò il pericolo in cui sarebbe incappato, se fosse stato eseguito il suo trasferimento nel carcere di Secondigliano, dove era rinchiuso Giorgio Paradisi. Uno degli ex compagni della Bandaccia, da lui chiamato in correità. Idem per l'altra improvvida decisione di spostarlo, anni dopo, a Poggioreale dove alloggiava anche Massimo Carminati, per il clamoroso furto nel caveau (una delle poche accuse per cui l'ex Nar è stato condannato) dentro al Tribunale di Roma nel 1999. Il Nero, che nella fiction è ritratto come amico fraterno del Freddo, ma che nella realtà è semmai la sua Nemesi. E che proprio in base alle sue dichiarazioni era stato arrestato, e poi prosciolto, dall'accusa di aver ucciso il giornalista Mino Pecorelli e dalla partecipazione alla strage alla stazione di Bologna. O quando capitò, in un hotel della Capitale, che nella notte la sua stanza fu visitata da due rapinatori, con indosso giubbotti antiproiettile. Peccato che Abbatino, all'ultimo minuto, avesse preteso di spostarsi, nonostante nessuno conoscesse la sua (vera) identità. Oggi, revocato il suo nome e la scorta, il Freddo torna alla Magliana. Ma ha già esaurito le sue sette vite. di Beatrice Nencha

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