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Roma capitale del Giappone per un giorno. In 3mila al Sushi Festival

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Giovanni Ruggiero
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Dopo Milano, anche Roma con gli occhi a mandorla. Ed è una moda, quella del sushi, destinata a restare. A consolidarsi. Levatevi dalla testa l'immagine austera del cuoco giapponese che compone un hosomaki impastando riso e salmone. Quelli erano i tempi di zio Marrabbio e Kiss me Licia. Oggi, nelle cucine dei migliori giapponesi della capitale, si respira un'aria internazionale. Si sperimentano innesti e ingredienti tipici di cucine apparentemente agli antipodi. E si parla molto italiano. Tanti chef nostrani si cimentano con la cucina d'estremo oriente. Mischiando ricette tipiche, ad esempio i classici uramaki, con ingredienti della cucina mediterranea ed europea. In altre parole, la fusion è la nuova frontiera del sushi, come tradizionalmente inteso. Domenica sera gli appassionati delle bacchettine hanno trovato “riso e pesce” per i loro denti a Palazzo Brancaccio, lussuosa location a due passi dal Colosseo, che ha ospitato “IOJP”, il Sushi Festival, hashtag #iojapo. L'evento, organizzato in collaborazione Roma.eat, ha attirato più di tremila “sushi lovers”, dalle 12 alle 23.30, coprendo, in una fantastica giornata primaverile, tutte le fasce di pubblico. Quelli del pranzo, quelli dell'aperitivo, quelli della cena. Funzionava così: ai partecipanti venivano dati 10 ticket da “spendere” nel temporary restaurant allestito in dieci corner disseminati tra il giardino e gli interni barocchi della villa. Ogni tagliando dava diritto a un pezzo di sushi. Chiaramente i ristoratori si sono scatenati, per offrire ciò che di più buono, unico ed eccentrico potevano affettare con la punta del proprio coltello. I ristoranti che hanno aderito sono ben noti alla movida romana: Nojo, Chef Nestor World (in trasferta da Pescara), Mahalo, Yume Fusion, Sui Generis, Sushidre, Kuro Club, Ginza Gold. “Abbiamo avuto una presenza di pubblico oltre le attese”, spiega l'organizzatore Roberto Fantauzzi. Parla di circa tremila persone mentre fuori da Palazzo Brancaccio c'è ancora un fila che aspetta di entrare. “Famiglie, bambini, ragazzi. Una giornata dal clima estivo ci ha permesso di valorizzare al meglio i giardini di questo meraviglioso palazzo dell'Ottocento”. Quanto alla scelta dei ristoratori che hanno partecipato al Sushi Festival, sono stati privilegiati alcuni criteri: “Qualità, creatività e coraggio nello sperimentare”, aggiunge Fantauzzi. “Abbiamo individuato quei ristoranti romani di sushi che propongono particolari declinazioni che dal Giappone sconfinano in Brasile o nelle isole Hawaii. Abbiamo ospitato una chef italiana che ha vissuto dieci anni nell'entroterra giapponese per apprendere le arti del sushi meno note a livello internazionale. Abbiamo chef italiani che hanno dapprima rivisitato alla giapponese i piatti italiani e, successivamente, hanno italianizzato il sushi interpretandolo alla mediterranea”.   È il caso del duo italo-nipponico Valerio Esse e Jin, gli chef del Nojo di Ponte Milvio, che tra le varie alternative hanno proposto degli hosomaki al profumo di tartufo. Un altro sperimentatore è lo chef Andrea Panattoni di Sushidre: “La mia è una cucina fusion, una italianizzazione del sushi. Aggiungo sapori, contrasti dolce-salato, acidità, croccantezze, gusti che stupiscano il palato”. Interessante anche la storia di Agustina Clara Mazzetti, chef del Mahalo. “La nostra è una proposta fusion, dove si incontrano il cibo hawaiano e giapponese, dove si combina ciò che è tipico della cucina giapponese con l'esotico delle Hawaii. Un mix di frutta e pesce”. Mahalo, anch'esso in zona Ponte Milvio, è aperto da poco, ma è già una certezza tra gli amanti del genere. Agustina arriva dall'Argentina: “Sono in Italia da quasi due anni. Prima insegnavo, ero professoressa di educazione fisica a scuola e in palestra. Poi una sera sono andata a cena da un giapponese molto conosciuto a Buenos Aires e mi sono innamorata. Ho cominciato a fare pratica lavorando gratis per acquisire la tecnica. Ed ora eccomi qui”. di Salvatore Dama

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