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Riforma del lavoro, i contratti anti-crisi: orari flessibili, merito e produttività

Giulio Bucchi
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In Italia la riforma del lavoro si sta già facendo. Non c'entra il governo, non servono né leggi né richieste dell'Europa. Perfino i sindacati, quelli storici, restano alla finestra, così come Confindustria. In uno dei tessuti più ricchi e produttivi d'Italia, la Lombardia, sta nascendo una moltitudine di contratti «anomali» per la situazione italiana: dentro ci sono flessibilità su orari e paghe, e cade perfino il tabù del salario di produttività. A realizzare questa rivoluzione silenziosa è l'Ugl, sigla nota soprattutto a livello romano e laziale: è il sindacato, oggi un po' in disgrazia, da cui è nata la carriera politica di Renata Polverini, già presidente della Regione Lazio. Infilandosi nei terreni pericolosi aperti dalla crisi, questa sigla sta introducendo a partire dalla Lombardia (dove è guidata dal segretario regionale Luigi Recupero) una serie di tipologie contrattuali originali che hanno validità nazionale: vengono infatti sottoscritte da associazioni datoriali prevalentemente lombarde, ma nulla vieta che siano fatte proprie da aziende su tutto il territorio nazionale, e a prescindere dall'eventuale tesseramento dei dipendenti. A creare la spinta verso questa mutazione dal basso delle coordinate del mercato del lavoro è, purtroppo, la crisi. Con la contrattualistica bloccata da un impianto sclerotizzato dagli anni '70 - e mai mutato per le resistenze della tenaglia sindacale, ma anche per le rigidità della grandi organizzazioni datoriali - molte imprese semplicemente non riescono più a lavorare visto il calo del mercato. A rendere impossibili margini di convenienza non è solo la parte economica dei contratti ma anche e soprattutto quella normativa, per la quale introdurre categorie di merito (salari legati alla produttività, premi, eccetera) è estremamente difficile, perché i contratti sono blindati dalla Triplice che al suo interno non si è mostrata in grado di arrivare a modifiche condivise nella contrattazione nazionale. Per aprire un terreno di «riforma» possibile la pressione del mercato ha di fatto rotto le barriere sia sul fronte datoriale (con la nascita di nuove sigle, spesso di aziende uscite dalle grandi categorie) sia su quello sindacale, con l'Ugl che in molte occasioni ha recitato il ruolo di «guastafeste», firmando i contratti che Cgil, Cisl e Uil rifiutano di prendere in considerazione. Sta di fatto che in settori come caccia, pesca, logistica, agricoltura, sanità privata, commercio, terziario, vigilanza privata (tradizionale feudo del sindacato di destra) stanno proliferando accordi nuovi, basati su un approccio «culturale» meno «conflittuale»: un'impresa che non crea ricchezza non può assumere, dunque è interesse del sindacato concorrere - per quel che può - alle condizioni che permettano all'impresa stessa di stare sul mercato competitivamente senza dover chiudere uno o più occhi su rimborsi, trasferte o altro. Un esempio? Il «CCNL per i soci e i dipendenti delle cooperative esercenti attività prevalente nel settore autotrasporto, spedizione merci, logistica e facchinaggio» sottoscritto dall'UniCoop pochi mesi fa: qui si fa riferimento esplicito ad «aumenti salariali finalizzati al raggiungimento degli obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, ed efficacia per migliorare la competitività dell'impresa». In questo, come in altri dei contratti che in questi mesi hanno già coinvolto quasi 3mila imprese nei settori già citati, si apre a una svolta non da poco: le risorse inquadrate per la 14esima sono dirottate sui premi di produttività. Per il lavoratore si tratta di un rischio, perché un'entrata certa è sostituita da una «meritocratica», dunque legata - a seconda dei casi - alla produttività degli impiegati o ai risultati dell'azienda. Spesso però questa condizione è necessaria all'azienda per sottoscrivere nuove assunzioni: se non avesse facoltà di legare una parte del salario a determinati risultati, non potrebbe assumersi il rischio di iniziare nuove commesse. Altra novità esplicitata nel contratto UniCoop-Ugl, la compartecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale, che all'estero (per esempio nella famosa Germania) è regola. Si può, senza dubbio, obiettare che contratti di questo tipo diminuiscono le tutele e - potenzialmente - i salari. Ma finché il contesto non cambia a livello «macro», resta il fatto che le decine di migliaia di persone che stanno lavorando con queste formule non ingrossano le fila della disoccupazione. di Martino Cervo

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