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Catalogna, la dittatura dell'euro. Renato Farina: "Vi svelo il ricatto mortale"

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Andrea Tempestini
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L'unica cosa sicura che salta su dai fatti di Catalogna è che, in questa democrazia europea e occidentale, dotata di tutti i bla bla incensatori, la sovranità non appartiene al popolo. Detto più semplicemente e volgarmente: il popolo non conta un cazzo. Non c'è bisogno di essere dei geni leonardeschi per afferrare il concetto. Se una nazione con voto a maggioranza prova ad alzare la testa per far valere i propri desideri, perfettamente in linea con la dichiarazione dei diritti umani dell'Onu (1948) e della Convenzione europea dei diritti umani (1954), viene trattata come se volesse costituirsi in Stato canaglia, a cui togliere pane, acqua e aria. Oggi il governo di Barcellona sceglierà se rischiare la strada della dichiarazione formale di secessione da Madrid, oppure tentare la strada della trattativa. Un fatto è certo: tutti, ma proprio tutti i poteri hanno stabilito che questa indipendenza non s'ha da fare. Mariano Rajoy, formalmente del Partito popolare europeo ma in realtà erede del franchista Aznar (Cossiga dixit), minaccia ottusamente l'intervento dell'esercito, ma lui è una pedina di ben altra Invincible Armada. Pesa assai di più la scelta del cosiddetto mercato libero (libero lupo tra liberi polli), che è il nome innocente dei poteri che tengono in pugno l'Unione europea. Non si tratta di dislocare blindati per schiacciare il moto irredentista, più efficacemente e senza antipatiche repressioni in piazza, basta uccidere economicamente la regione-nazione più prospera della Penisola Iberica. Le notizie dei trasferimenti, comunque fuori dalla Catalogna, delle sue aziende strategiche sono sinistramente eloquenti eppure oscurate nella loro carica di violenza. Sono state date dai Tg Rai, La7 e Mediaset e dai giornaloni italici come se fosse colpa dei catalani che con il loro avventurismi si attiravano i fulmini dei saggi padroni del vapore. Una specie di inesorabile punizione divina contro Sodoma e Gomorra. Come se fosse il vento fiammeggiante degli dei. Balle, è la tirannide di Creso, l'arcipotere della finanza. Toccherebbe alla politica espressione della volontà dei popoli e alla opinione pubblica fare fronte contro questi becchini della democrazia: invece no, si inchinano. PISTOLA ALLA TEMPIA Come si può guardare come fosse ovvia la deportazione altrove delle colonne portanti dell'economia catalana? Caixa non è solo la più importante banca di quel territorio: è il cardine dell'attività economica di tutti i sei milioni di residenti. Per capire. Qualcuno ricorda cos'era, per Milano e buona parte del Nord, la Cassa di risparmio delle province lombarde 50-60 anni fa, prima che si chiamasse Cariplo e poi si integrasse in Banca Intesa? È stata il polmone finanziario della ricostruzione industriale e del boom. Il paragone regge con la relazione attuale tra Caixa-Catalogna. Toglierle la Caixabank, vuol dire annichilire la Catalogna, anzi impiccarla. Non è stata una valutazione serena, quella del suo cada: ha «dovuto» decidere di trasferirsi a Valencia. Così il colosso ormai multinazionale Gas Natural, costretto a sloggiare da Barcellona di cui era un architrave come l'Eni per l'Italia. Chiaro il perché? Il popolo può volere quel che gli pare, ma la sua volontà è resa impossibile o come minimo temeraria dalla pistola piazzata dal famoso mercato libero alla tempia dell'economia catalana. Non sono dei traditori i capi di Caixa e Gas Natural: l'alternativa era il default in borsa, la sfiducia teleguidata dai gangli della finanza euro-mondiale. Certo, ci sarebbe una strada: la nazionalizzazione. Ma questo causerebbe l'isolamento e le sanzioni dell'Occidente. Dunque la Catalogna è come in gatto nel sacco del mercato. Può svicolarsene? Ci sarebbe un precedente che suscita speranza: la Brexit. Anche allora ci furono la minaccia della fuga di banche, aziende, capitali, e quella dell'arrivo di blocchi, embargo, penali. Lì la strada è stata presa lo stesso e il Regno Unito sta persino meglio. Vero. Ma c'è una differenza colossale: la Gran Bretagna aveva ed ha una sua moneta, la sterlina, ed ha dunque uno strumento potente per salvaguardare la propria sovranità che chi sta nell'euro non ha. Se si vuol saltare fuori dalla gabbia, dice la lezione inglese, bisogna prima svincolarsi dalle catene della moneta unica di Francoforte. L'indipendenza insomma è un ideale che si può avere in cuore, ma finché si sta nell'eurozona - con tutto il bene e gli auguri che facciamo alla Catalogna e persino ai Paesi Baschi - te lo impediranno. Salvo il prezzo del sangue, che nessuno si spera voglia spargere. LE DUE OCCASIONI In questo quadro i referendum di Lombardia e Veneto sono un'occasione unica per salvare un residuo di credibilità delle nostre democrazie euro-occidentali. Non si chiede velleitariamente l'indipendenza, ma un'autonomia sostanziale che, applicata in materie oggi disastrosamente gestite dallo Stato, consenta alla qualità civile di queste Regioni di dare il meglio di sé per la prosperità dei 15 milioni di loro abitanti e dunque degli altri 45 milioni che beneficeranno di questo traino emulativo. Ed è davvero squallido il gioco del Partito democratico e del governo che, per bocca di Sandro Gozi (non a caso plenipotenziario di Gentiloni per l'Europa), attacca i referendum come espressione di «demagogia» invitando a disertarli. E peggio ancora fa Avvenire che, a nome della cattolicità italiana, dà la prima pagina a questa tesi, capovolgendo l'autorevole invito a scegliere del neo arcivescovo di Milano, Mario Delpini. Davvero il popolo sta a zero per questa gente. di Renato Farina

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