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Monti parla di crescita ma ci riempie di tasse

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Il premier è un disco rotto: incita di nuovo alla guerra santa contro l'evasione. Il primo ad aver fatto saltare il patto coi cittadini è il suo governo divora-ricchezza

Lucia Esposito
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  Cari lettori, le vostre lettere sono per me sempre fonte di ispirazione e, spesso, di notizie. È nata così, da una vostra segnalazione, l'inchiesta sulla scorta di Gianfranco Fini, costata al contribuente, per seguire le vacanze del presidente della Camera, ben 80 mila euro. Nascono così molti dei servizi che pubblichiamo, a cominciare da quello di questi giorni sulle vittime del Fisco e di Equitalia. Ieri mattina sono però letteralmente saltato sulla sedia nel leggere il messaggio che mi ha inviato un imprenditore di Jesolo, un artigiano che produce lampadari artistici, pezzi unici che paiono sculture di luce. Claudio Vianello, questo il nome del lettore, guida un'azienda che ha fondato quarant'anni fa ed esporta in tutto il mondo, dal Giappone alla Russia, dagli Stati Uniti all'India, dall'Arabia Saudita al Canada. Luci che ha voluto pure Akira Kurosawa sul set di un suo film. Nonostante il successo (...) (...) dei lampadari firmati, adesso Vianello non ne  può più di tasse, tanto da aver stilato un elenco dettagliato di tutto quel che gli tocca pagare e che noi riportiamo in prima pagina, nella tabella tenuta in mano da Mario Monti. Il nostro artigiano ha 57 anni e fa parte di quel 4,4 per cento di italiani che guadagnano più di 50 mila euro. Apparentemente è dunque uno che sta bene, diciamo un esponente della classe media di questo Paese. In realtà, tra cedolare secca, imposta regionale sulle attività, addizionale regionale e addizionale comunale quest'anno ha dovuto versare 2.342,30 euro. A questi vanno aggiunti 723 euro di acconto Irap, più 13.332 euro di Irpef e 5.562 euro di acconto sui redditi delle persone fisiche. Non è finita: ci sono i diritti camerali (88 euro), i contributi Inps (tra saldo e acconto fanno 9.350,90) e la maggiorazione dello 0,40 per cento per la rateizzazione. Totale, 31.615,55. Ma non è finita. Vianello il 30 di novembre, come tutti, dovrà versare le seconde rate di altre tasse: 396,90 di cedolare secca, 1.085,24 di Irap, 8.051,10 di Irpef e 3.510,90 di contributi Inps, per la modica somma totale di 13.044,14 euro, che si sommano ai 31 mila e 615 già pagati. In totale  fanno 44.659,69 euro, cui mancano però i contributi fissi Inps, vale a dire altri 3.187,56 euro. Totale, 47.847,25 euro su un reddito dichiarato di 56.900 euro. Ieri mattina, quando ho letto la cifra finale, non ci volevo credere. E a quanto pare non ci vuole credere neppure Claudio Vianello, il quale nella sua lettera, in conclusione, chiede se non sia il suo commercialista ad aver sbagliato a far di conto. Non per sfiducia nel professionista della partita doppia ma perché evidentemente quel carico fiscale gli pare un'assurdità. Invece, purtroppo, è la realtà, non sintetizzata nella freddezza delle statistiche, ma messa nero su bianco come mai mi era capitato di vedere. Come può una persona che guadagna quasi 57 mila euro ridursi a pagarne quasi 48 mila di tributi vari? Come può stare in piedi un Paese che tosa chi produce ricchezza come il fisco italiano tosa le imprese? Fin quando si dice che sulle aziende la pressione fiscale ha superato il 68 per cento ed è la più alta tra quelle applicate dai cosiddetti Paesi industrializzati non si capisce l'effetto delle tasse su chi produce.  I dati sono asettici e anche sapere che in Polonia lo Stato si accontenta del 42 per cento, mentre nel paradiso del welfare danese si ferma al 29, non fa comprendere il dramma che rischia di spazzar via ogni realtà produttiva dall'Italia. Nessuna impresa resiste se il fisco si mangia quasi il 70 per cento del reddito. Nessun imprenditore può continuare se, guadagnando 60 mila euro, a fine anno se ne trova 9 mila. È vero quello che ha scritto il nostro lettore di Jesolo oppure si è sbagliato il suo commercialista? Se è vero, mi pare inutile continuare a parlare di crescita, come fa ogni giorno il nostro presidente del Consiglio. Così come è inutile incitare alla «guerra di civiltà» contro l'evasione fiscale. Con questa «civiltà» delle tasse nessuna impresa è in grado di crescere e nessun Paese è in grado di andare lontano: al massimo va in fallimento. Non dico di avere una percentuale sui profitti del 21 per cento, come in Lussemburgo, ma almeno adeguiamoci alla Germania, che sta al 48,2 per cento. Se dobbiamo fare i compiti che ci danno i crucchi, per lo meno cominciamo da quelli che ci possono fare stare meglio.     di Maurizio Belpietro  

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