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L'Italia condannata per la cella a Belpietro

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La Corte europea dà ragione al nostro direttore, punito per aver pubblicato l'articolo di un parlamentare. È la rivincita contro i politici che non cambiano una legge liberticida. E che permette alle toghe di mandare in galera i giornalisti per omesso controllo

Giulio Bucchi
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C'è un giudice a Berlino, anzi a Strasburgo.  La vicenda mi riguarda da vicino e dunque chiedo scusa ai lettori se,  fra i tanti e gravi problemi che affliggono il paese, occupo spazio per una questione che pare personale.  In realtà la faccenda va al di là del sottoscritto e riguarda più in generale la libertà di informazione in Italia e il bavaglio che troppo spesso viene messo ai giornalisti, soprattutto a quelli non di stretta osservanza progressista. In breve la storia è la seguente. Nove anni fa, quando dirigevo il Giornale, pubblicai un articolo di Raffaele Iannuzzi, all'epoca senatore di Forza Italia. Iannuzzi è un cronista che negli anni si è costruito una certa fama per aver raccontato il processo a Giulio Andreotti e in precedenza il cosiddetto golpe De Lorenzo. Diciamo che è un esperto di cose oscure della Repubblica, prima al fianco di Eugenio Scalfari, poi di Giuliano Ferrara. Di cosa si occupava l'articolo? Dei rapporti fra la Procura di Palermo e i carabinieri, ossia di un affaire che è arrivato ai giorni nostri ed è sfociato in un recente processo contro il comandante dei Ros Mario Mori e il suo vice Giuseppe De Donno. Dagli altari per aver arrestato Totò Riina, i due ufficiali sono finiti nella polvere con l'accusa di aver fatto scappare Bernardo Provenzano. Anni di supplizio giudiziario che qualche mese fa si è concluso con una assoluzione in primo grado.  Nel 2004, quando ancora Mori e De Donno non erano sul banco degli imputati, Iannuzzi anticipò la guerra tra procura e carabinieri, ricostruendo a suo modo la storia. Il racconto però non piacque a Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte, capo e vice capo del pool di magistrati, i quali si ritennero diffamati. Forse la faccenda si sarebbe potuta risolvere con una lettera di rettifica o un'intervista per chiarire fatti di rilevante interesse pubblico, ma i due pm preferirono adire le vie legali, presentando denuncia contro Iannuzzi per diffamazione e contro di me per omesso controllo. Aperto il procedimento penale, il Parlamento obbiettò che il senatore era nell'esercizio delle sue funzioni e nonostante i magistrati non si siano arresi rivolgendosi alla Consulta, la Corte costituzionale ribadì l'insindacabilità delle opinioni di Iannuzzi. Così nelle maglie della giustizia, cioè di giudici che dovevano decidere del ricorso di altri giudici, sono rimasto solo io. In primo grado, dopo aver fatto sfilare i testimoni di accusa e difesa, il tribunale mi assolse «perché il fatto non sussiste», ritenendo che Iannuzzi con il suo articolo si fosse limitato a esercitare il diritto di critica. In secondo grado invece il tribunale mi condannò:  110 mila euro di risarcimento  da versarsi esentasse a Caselli e Lo Forte più quattro mesi di carcere, pena sospesa per il beneficio della condizionale.  Tra i due giudizi, la Corte di Cassazione scelse il secondo, confermando la sentenza d'appello e dunque la condanna divenne definitiva.  Quattro mesi di detenzione per non aver scritto l'articolo incriminato ma aver omesso il controllo sui fatti descritti da Iannuzzi.  Ora, sul caso Mori e De Donno ognuno può avere le opinioni che vuole ma credo che nessuno possa sostenere che non fosse una vicenda di interesse pubblico di cui un giornale non si dovesse occupare. Iannuzzi ha sbagliato a riferire alcuni fatti di una storia che ha occupato il dibattito politico ed è finita davanti a un tribunale? Può darsi, ma non è questo il punto. La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere.  Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi?  Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio.  Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c'è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano.  Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel  timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna  presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l'Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così. Io non ce l'ho con i magistrati, che applicano la legge messa a loro disposizione:  può darsi che qualcuno la applichi senza attenuanti o con il massimo della pena perché gli sto antipatico, ma non è questo il problema. Io la rivincita l'ho presa contro un Parlamento inetto che da anni dice di voler abolire una legge liberticida e non lo fa. I giornalisti non sono molto simpatici agli onorevoli  in quanto li ritengono colpevoli del clima anticasta che grava sul paese. Dunque, se a parole solidarizzano con loro, molti deputati e senatori esultano a ogni condanna. Sta di fatto che in dodici anni la legge che depenalizza la diffamazione non è stata varata. Non so se la sentenza della Corte di Strasburgo che condanna l'Italia a risarcirmi muoverà qualcosa, però è un punto fermo. A meno che non incitino alla violenza o al razzismo, i giornalisti non meritano il carcere, perché la detenzione non è compatibile con il diritto alla libertà d'espressione. Basterà per ottenere nuove norme che impediscano il bavaglio alla stampa? Io me lo auguro.  di Maurizio Belpietro  

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