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James Foley, il reporter sempre in prima linea. La madre: "Siamo tanto orgogliosi di lui"

Nicoletta Orlandi Posti
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"Avevo solo una telefonata da poter fare e ho cercato mia madre per dirle che stavo bene". Era il 2 giugno del 2011 e James Foley, il reporter americano decapitato dagli jihadisti, racconta agli studenti della scuola di giornalismo di Chicago il suo primo sequestro in Libia, mentre era impegnato a seguire la rivolta che ha rovesciato il leader libico Muammar Gheddafy, durato sei settimane. Un'esperienza dura che però non ha spento il suo entusiasmo per una professione che amava più di ogni altra cosa: Foley, 40 anni, era un inviato di guerra, un reporter in prima linea, nei conflitti più cruenti, in Afghanistan, in Libia, in Siria. E proprio in Siria era stato preso prigioniero il 22 novembre 2012 nelle vicinanze di Taftanaz, nella provincia nordoccidentale di Idlib, una delle zone più pericolose, mentre stava raccogliendo materiale per un reportage sulle gravose condizioni di vita dei cittadini di Aleppo a un anno dall'inzio del conflitto da inviare al Global Post. Quattro uomini armati di kalashnikov lo hanno fermato insieme al suo autista e al suo traduttore, che sono poi stati rilasciati. Da quel giorno si sono perse le sue tracce fino al tragico epilogo. Prima della decapitazione, a John Foley è stata concessa l'opportunità di lasciare le ultime dichiarazioni (forse, dichiarazioni contraffatte per volere dei jihadisti). "Esorto i miei amici, la mia famiglia e le persone a me care, a ribellarsi contro i miei reali assassini - il governo statunitense. Chiedo a mio fratello John, che è membro delle Forze Armate statunitensi, 'pensa a quello che stai facendo, pensa a quante vite hai distrutto incluse quelle della tua stessa famiglia'. Rifletti su quelle persone che hanno dato il via a bombardare l'Iraq. Sono morto quel giorno John, quel giorno in cui te e i tuoi colleghi avete iniziato a bombardare - con quella azione avete firmato la mia condanna. Vorrei avere più tempo. Vorrei poter avere la libertà di vedere la mia famiglia ancora una volta, ma l'opportunità è volata via. Credo tutto sommato, di non voler esser nato americano". «Non siamo mai stati più orgogliosi di nostro figlio. Ha dato la sua vita cercando di mostrare al mondo la sofferenza del popolo siriano», ha detto Diane Foley, la madre del giornalista. «Imploriamo i rapitori - aggiunge la donna in un messaggio pubblicato su Facebook da 'Free James Foley' - di risparmiare le vite degli ostaggi rimanenti. Come Jim, sono innocenti. Non hanno alcun controllo sulla politica del governo americano in Iraq, Siria o in qualsiasi altra parte del mondo. Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. Era un figlio, un fratello, un giornalista ed una persona straordinaria». La Foley ha poi chiesto di rispettare «la nostra privacy nei prossimi giorni».

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