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Russiagate, l'ex consigliere Flynn accusa Trump: "Il genero mi chiese di incontrare i russi"

Giovanni Ruggiero
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Il caso «Russiagate», le presunte interferenze russe nella politica americana e in particolare nel sorgere dell' attuale amministrazione del presidente Donald Trump, entra nel vivo con la bomba tirata dal generale in congedo Michael Flynn, l' ex consigliere della sicurezza nazionale, decaduto fin dal 13 febbraio 2017, dopo appena una ventina di giorni di incarico, a causa dei suoi incontri con l' ambasciatore russo in America, Sergei Kislyak. Ieri Flynn ha ammesso di fronte al procuratore speciale Robert Mueller, che dirige l' inchiesta nei suoi confronti, con l' accusa di false dichiarazioni rilasciate all' FBI: «Le mie azioni sono state sbagliate. La mia dichiarazione di colpevolezza e la volontà di cooperare con il procuratore speciale riflettono la decisione che ho preso nel miglior interesse della mia famiglia e del mio Paese. Accetto la piena responsabilità delle mie azioni». Riconosce quindi di aver mentito a chi gli chiedeva conto dei due incontri avuti col diplomatico russo nel dicembre 2016, negando che fossero avvenuti. Ma lo avrebbe fatto a fin di bene, stando a quanto riporta la ABC, secondo cui nelle prossime ore Flynn preciserà meglio la sua posizione, sostenendo che sarebbe stato lo stesso Trump a chiedergli di vedere Kislyak per stabilire una fattiva collaborazione in Siria tra le forze russe e quelle americane contro i jihadisti dell' Isis. Il problema era che Flynn allora, prima dell' insediamento della nuova amministrazione alla Casa Bianca, era ancora un privato cittadino, a cui la legge americana, per la precisione il Logan Act in vigore fin dal 1799, proibisce di avere contatti diretti con un funzionario straniero. Flynn avrebbe inoltre chiesto a Kislyak un sostegno russo nell' ambito del Consiglio di Sicurezza dell' Onu, per bloccare la risoluzione di condanna agli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania, aiuto poi non verificatosi. Legge a parte, viene da chiedersi se, di fronte a un obbiettivo così importante come collaborare insieme contro gli sgherri del califfato islamico, l' apparato giuridico statunitense non avrebbe potuto chiudere un occhio, data l' emergenza del terrorismo. Flynn si sarebbe deciso ad ammettere di aver mentito all' Fbi sentendosi abbandonato da Trump, di fronte al rischio concreto di beccarsi 5 anni di galera e ben 250.000 dollari di multa. In effetti, dalla Casa Bianca giunge un commento che suona come una presa di distanza, quello del consigliere speciale Ty Cobb: «Le ammissioni e le incriminazioni relative al signor Flynn riguardano solo lui, e non altri. Le sue false dichiarazioni riflettono le menzogne che disse a funzionari della Casa Bianca e che portarono alle sue dimissioni del febbraio scorso». Insomma, mandato prima in «missione speciale» intavolando colloqui «proibiti» con l' ambasciatore russo, ora che è stato pizzicato, viene sacrificato per evitare che tutta l' amministrazione ne risulti compromessa. Una fonte vicina a Trump, in serata, avrebbe commentato alla NBC che «queste sono notizie molto, molto brutte». Alla Casa Bianca, inoltre, è scattato un divieto per i giornalisti di entrare nello Studio Ovale del presidente che stava in quelle ore incontrando il premier libico Fayez Al Serraj. Dal canto suo, l' ex-direttore dell' Fbi James Comey, silurato da Trump per l' indagine sul Russiagate, ha accolto le ammissioni di Flynn postando su Twitter alcuni versi del profeta Amos tratti dalla Bibbia: «Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne». di Mirko Molteni

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