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Il piano Junker: un bilancio unico per l'Eurozona entro il 2015

Matteo Legnani
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Immaginatevi se il sindaco di una città come Genova si presentasse a Montecitorio e proponesse una riforma globale per l' economia nazionale. Non lo farebbero neanche entrare. Ebbene: l' Unione europea è guidata da un signore, Jean-Claude Juncker, che - nulla di personale! - ha come esperienza politica diretta la gestione del Granducato del Lussemburgo, una piccola monarchia costituzionale incastrata tra Belgio, Francia e Germania, che ha appunto gli stessi abitanti di Genova ed è celebre soprattutto per essere ancora un paradiso fiscale autorizzato. Detto questo, ieri Juncker ha presentato a Bruxelles un' agenda in base alla quale, da qui al 2025, l' Eurozona (cioè i Paesi che aderiscono all' euro, come l' Italia) dovrebbe avere un bilancio unico, per garantire la stabilità; dovrebbe avere un "Fondo monetario europeo", per le energenze; e un ministro unico dell' Economia e delle Finanze (una posizione che, si dice, fa gola al nostro Padoan... Auguri). Tre pilastri capaci di trasformare l' attuale Unione in una specie di stato federale, almeno sul versante economico, per cui gli stati-nazione, già oggi molto compressi nelle loro autonomie, smetterebbero di essere padroni in casa loro. Roba che a quel punto andare a votare per i governi nazionali diventa come andare alla bocciofila. Magari è un bene, ma va detto chiaro e tondo, quindi grazie alla chiarezza di Juncker. Poi si va a leggere meglio e ci si accorge che stiamo parlando di una "tabella di marcia" per i prossimi 18 mesi, cioè fin quando avrà vita l' attuale commissione. Dopo, Dio pensa, o meglio Merkel pensa. Già: perché Juncker è lì per questo, per gestire i delicatissimi equilibri (lo chiamano "l' equilibrista") tra i Paesi partner, e quindi in sostanza mediare tra lo strapotere della Germania e lo sciovinismo francese, e sfornare soluzioni di compromesso che nemmeno il miglior Veltroni, quello del "non solo, ma anche", avrebbe saputo immaginare. La tabella di marcia di Juncker verrà presentata a metà mese al vertice dei capi di Stato e di governo che si terrà a Bruxelles. Con la nascosta consapevolezza di tutti che l' incontro si ridurrà a un brindisi natalizio, avendo già la Germania fatto sapere che, fin quando a Berlino non si sarà consolidato il nuovo governo, di avviare riforme europee vere e proprie non se ne parla proprio: nein! L' unica cosa chiara è questa faccenda della sovranità economica nazionale degli Stati membri, che ne uscirebbe pressochè annullata. Il cuore delle decisioni di politica economica di ciascun Paese emigrerebbe ancor più decisamente dalle capitali nazionali a Bruxelles. Dove, a dettar legge, troverebbe organismi comunitari a matrice tedesca. Ed ecco perché molto probabilmente tutto ciò non accadrà: perché la Francia, pur non avendo le "pezze" economiche su cui appoggiare la sua politica, non potrà che opporsi. Come nei secoli si è sempre periodicamente opposta alla Germania, assai spesso perdendo, sulle prime, ma poi uscendone vincitrice. Però, si sa: tratteggiare paralleli tra l' egemonismo tedesco, politico-militare, manifestatosi fino al '45 e quello economico attuale è sacrilegio: tutti lo pensano, i non-tedeschi, ma nessuno ha la faccia di dichiararlo. E si continua. «Per quel che se ne sa, di quest' idea di riforma, e soprattutto della scelta di tempo, penso tutto il male possibile», osserva Giulio Sapelli, professore di storia economica, europeista eterodosso e diffidente verso il pensiero unico berlinese. «Non abbiamo risolto la questione del bail-in bancario, abbiamo scoperto che la Bce sono due, separate e incomunicabili tra loro, con quella che vigila sulle banche affidata a una dirigente strapotente, Daniele Nouy, decisa a non rispondere neanche alla Commissione. Vedo un' Europa pluricefala, con molti, troppi centri di potere coesistenti, che anziché far sedimentare la questione bancaria vuol agitare nuovamente le acque». Ma come spiega, Juncker, il suo piano? «Negli ultimi anni sono state attuate importanti riforme istituzionali per rafforzare l' Unione, ma la sua architettura è ancora incompleta», rispondevano ieri a Bruxelles i suoi uomini. E come la vogliamo completare? Col fiscal compact! Cioè dando piena attuazione a quel «trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance» (appunto il cosiddetto "fiscal compact", ndr); però «facendo uso dell' adeguata flessibilità insita nel patto di stabilità e crescita». Anche qui: un' affermazione, e la sua smentita. Il fiscal compact prescriverebbe di ridurre la percentuale del debito pubblico (i titoli di Stato in circolazione, ndr) rispetto al Prodotto interno lordo (Pil), al 60%. Ogni 100 euro di Pil, 60 di debito. Oggi, invece, ogni 100 euro di Pil ne abbiamo 130 di debito. Chiaro? Entro il 2030! Una cosa pazzesca. Accettata dal governo Monti nel 2012 perché avevamo l' acqua alla gola: ma perfino Monti l' avrebbe mitigato, se avesse potuto. Ma Juncker dice che l' Europa deve attuarlo, ma "con flessibilità". Come dire: ti picchio, ma con un fiore. In realtà, per attuare sul serio il fiscal compact, l' Italia dovrebbe ridurre quel divario del rapporto debito/pil rispetto al livello voluto, del 60%, di ben 70 punti percentuali in 12 anni, pari a oltre il 5-6% all' anno. Un' ottantina di miliardi di euro di attivo di bilancio in più, che andrebbero esclusivamente destinati ad abbattere il debito pubblico, insomma ridurne la quota che va rifinanziata ogni anno. Una specie di miraggio, ci vorrebbe il genio della lampada. di Sergio Luciano

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