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Se arriva la condanna, i danni di De Benedetti li pagherà la Telecom

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Ignazio Stagno
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A Ivrea, nell'inchiesta per i morti di amianto all'Olivetti, sta per iniziare il gran ballo dei risarcimenti. Infatti per gli eventuali imputati sarà più facile ottenere le attenuanti se avranno pagato i danni patrimoniali e morali ai superstiti e ai famigliari delle vittime. Però la vera partita milionaria si giocherà in sede civile dove a rischiare grosso non saranno solo i 39 dirigenti indagati, ma soprattutto il vecchio datore di lavoro che nel frattempo ha cambiato pelle e nome. Infatti nel 1999, la Ico (Ingegner Camillo Olivetti) spa, guidata dall'allora amministratore delegato Roberto Colaninno, attraverso una spericolata opa, si impossessò di Telecom e ne prese il nome. Così adesso errori e negligenze della vecchia dirigenza, da Carlo De Benedetti a Corrado Passera a Colaninno, potrebbero costare molto cari alla principale azienda italiana delle telecomunicazioni e ai loro clienti. Contattato da Libero, l'ufficio stampa di Telecom ha preferito non rilasciare dichiarazioni ufficiali sulla questione. Ma, a quanto ci risulta, in questi giorni a Ivrea l'azienda ha incaricato direttamente alcuni difensori degli indagati. Non basta. Anna Rosa Sapone, referente sul territorio canavese dell'Ufficio affari legali di Telecom, in particolari per i contratti business, dichiara: «Il processo Olivetti? Su questo tema la funzione competente è quella del contenzioso legale di Telecom. Certo, se la questione riguarda ex manager dell'Ico spa si applicano le norme di cui al contratto dirigenti, quindi c'è una manleva e un onere a carico dell'ex datore di lavoro, coerentemente con le norme contrattuali, altro non so». Un modo un po' fumoso per ammettere che l'azienda telefonica non potrà lavarsene le mani, anche perché la società coinvolta dalla procura di Ivrea, la vecchia Ico spa, oggi si chiama Telecom: «È così, è sufficiente un controllo alla Camera di commercio per averne la conferma», ammette Sapone. Ben sapendo che le parti civili adesso si rivolgeranno al nuovo indirizzo. Per esempio lo farà l'avvocato generale dell'Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro (Inail) Luigi La Peccerella, che con Libero anticipa: «Chiederemo di essere autorizzati a chiamare in giudizio come responsabile civile il datore di lavoro che ha causato il danno, cioè Telecom». Una mossa che è già stata ammessa dal giudice nel processo contro Ottorino Beltrami, amministratore delegato di Olivetti dal 1970 al 1978 (fu il predecessore di De Benedetti). Beltrami venne condannato per omicidio colposo sino al secondo grado di giudizio, ma la sua vicenda non giunse alla sentenza definitiva per la morte dello stesso Beltrami, avvenuta nell'estate del 2013. «Usciremo allo scoperto quando sarà fissata l'udienza preliminare» continua La Peccerella. Prima però all'Inail verificheranno che l'azienda di telecomunicazioni non provi a dribblare le propria «responsabilità civile» scaricando la vecchia Ico «con qualche giochetto societario». Ma perché chiedere conto a Telecom anziché ai manager che quei danni li hanno causati? «Perché non riusciremmo a far pagare certe cifre a dei dirigenti in pensione». Neppure a De Benedetti? «In sede penale i giudici potrebbero chiedere dei sequestri, ma prendersela con le persone fisiche a volte è inutile». Come dimostra il caso di Stephan Schmidheiny, padrone svizzero della Eternit, proprietario di un sostanzioso patrimonio all'estero, ma non in Italia. Per questo nel processo Olivetti i superstiti e i parenti delle vittime molto probabilmente chiameranno in causa il debitore più abbiente e, senza perdere tempo con le persone fisiche, aggrediranno i beni di Telecom. In questo modo gli indagati la sfangheranno? «Dipende, la compagnia telefonica potrebbe avviare un'azione di rivalsa nei loro confronti e noi comunque faremo valere le nostre pretese anche sugli imputati» conclude La Peccerella. Provare a calcolare a quanto ammonteranno i risarcimenti è in questo momento abbastanza aleatorio. Il loro valore verrà stabilito «in via equitativa» dai giudici civili e questi prenderanno in considerazione il danno patrimoniale e quello non patrimoniale, che verrà valutato in modo discrezionale dal tribunale. Laura D'Amico, legale di parte civile per conto della Cgil, esperta di processi per malattie professionali, prova a fare una previsione: «Nei casi in cui un lavoratore lascia una vedova e un paio di figli, considerando anche il danno per la sofferenza del morto, che passa in eredità, mediamente il risarcimento ammonta a 500-600 mila euro». In questo procedimento le vittime sono 15, ma altre se ne aggiungeranno con il fasciolo bis (che per ora riguarda una decina di casi), mentre i sindacati hanno raccolto attraverso i loro “sportelli amianto” un'altra trentina di episodi. Numeri che non rendono peregrina l'ipotesi di una cinquantina di risarcimenti che moltiplicati per mezzo milione di euro potrebbero, con stima prudenziale, far schizzare a non meno di 25 milioni di euro la somma degli indennizzi. Una prospettiva che non preoccupa D'Amico, tenace avversaria di un certo tipo di imprenditoria: «All'Olivetti non si faceva prevenzione, perché in questo territorio non c'era sensibilità sull'argomento, non vi erano ispezioni e i lavoratori erano tenuti nell'ignoranza e per questo non rivendicavano il loro diritto alla salute. E se nessuno ti controlla o ti chiede risarcimenti, tu puoi pensare solo al profitto. È una gran pacchia. Ecco qual era il capitalismo maturo di quei signori». Però i risparmi sulle bonifiche e sulle altre misure di prevenzione rischiano di essere pagati oggi con gli interessi da chi a quel disastro non ha materialmente preso parte. Bruna P., una delle vittime del processo, che con la sua malattia ha condotto alla sbarra Carlo De Benedetti, il fratello Franco, i figli Rodolfo e Marco, Corrado Passera, ma soprattutto Colaninno, l'uomo della scalata a Telecom, ricorda così gli anni '90 in Olivetti: «Quando toccavamo le pareti rimaneva sulle mani del pulviscolo bianco e quando arrivavo alla mattina dovevo pulire la mia scrivania con uno straccio perché era piena di quella polvere». Dal 1990 in Italia si parlava del pericolo asbesto, ma non in Olivetti. «Avete ricevuto informazioni dall'azienda?» chiedono i pm. «No, assolutamente no» è la risposta della donna. Che ora chiederà a chi l'ha fatta ammalare il giusto risarcimento. di Giacomo Amadori 

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