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Stupratore evaso violenta ancora Per il carcere non era pericoloso

Nicoletta Orlandi Posti
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È sufficiente digitare il suo nome, Swilah Tawfik, e su Google o qualsiasi altro motore di ricerca - andando a ritroso - spuntano fuori i reati più svariati. Quello di spaccio, a quanto pare, per il quale a inizio novembre 2010 era stato arrestato a Cadoneghe (nel Padovano), è niente se confrontato al resto. Negli ultimi anni, per il ventottenne tunisino (clandestino e già colpito in passato da un ordine di espulsione dall'Italia) che mercoledì mattina era evaso dal carcere di Pordenone dopo aver picchiato un'agente di servizio in portineria, è stata un'escalation di condanne e accuse. A marzo quella di violenza sessuale a danno di due prostitute lo aveva fatto finire per l'ennesima volta dietro le sbarre. Qualche giorno prima aveva rischiato di essere stuprata pure un'infermiera di Padova ma, fortunatamente, il passaggio di una pattuglia della polizia aveva convinto il delinquente a darsela a gambe. Non è questa però l'ultima nefandezza di cui Tawfik deve rispondere di fronte alla legge, se è vero che l'altra notte il nordafricano, prima di essere catturato dalle forze dell'ordine e rispedito in prigione, stando al drammatico racconto della presunta vittima, avrebbe picchiato, legato e violentato un'altra donna, a Scorzè, nel Veneziano. Il caso del tunisino sta suscitando indignazione. Negli istanti successivi all'evasione dal carcere di Pordenone da parte dell'immigrato, il segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Donato Capece, conoscendo bene il soggetto in questione aveva subito detto che si trattava di un pluripregiudicato con una serie infinita di reati quali sequestro di persona, rapina aggravata e violenza sessuale e si era chiesto com'era possibile che Tawfik potesse girare liberamente in certe aree del carcere. E in effetti sembra impossibile che un delinquente simile, con l'etichetta di “stupratore seriale”, abbia potuto svolgere i cosiddetti “lavori socialmente utili”, quando altri carcerati - accusati di reati minori rispetto a quelli di cui ha già risposto e dovrà rispondere il clandestino - sono costretti a regimi di massima sicurezza con tutte le restrizioni che ne conseguono. La Lega rispolvera un vecchio cavallo di battaglia e invoca la castrazione chimica. Secondo Massimiliano Fedriga (veronese, ma friulano d'adozione), capogruppo del Carroccio alla Camera, la colpa è del «lassismo e del buonismo del centrosinistra. La politica delle porte aperte» dice «ha come unico effetto l'incremento dell'immigrazione clandestina e dei reati commessi da queste persone, di cui non conosciamo né l'identità né tantomeno i trascorsi giudiziari». In questo caso, però, erano tristemente noti. «Per chi commette reati a sfondo sessuale» prosegue il deputato leghista «sarebbe inoltre utile ricorrere con maggior frequenza alla castrazione chimica». La vicenda di Tawfik, oltre a lasciare a dir poco perplessi per il regime applicato durante il suo ultimo soggiorno in carcere, riporta d'attualità il tema della sicurezza delle nostre prigioni. Perché se è giusto sottolineare che erano trent'anni che dal penitenziario di Pordenone non scappava nessuno, non si può non pensare ad esempio all'ergastolano albanese che lo scorso maggio era riuscito a fuggire dal Pagliarelli di Palermo annodando un lenzuolo e saltando oltre il muro di cinta. Pure in quell'occasione il sindacato di polizia penitenziaria aveva sottolineato la carenza di personale in servizio. Forse, anziché svuotare le carceri e mettere in libertà migliaia di pericolosi criminali, sarebbe il caso di ascoltare il grido d'allarme degli agenti e di affrontare il problema in modo diverso. Oltre che di rispedire a casa propria i clandestini. di ALESSANDRO GONZATO

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