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Ritorno da Ebolandia. E in aeroporto nessun controllo

Matteo Legnani
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Siamo stati a Ebolandia. La terra dove il virus cresce e da cui la paura prende forma per dirigersi verso l'Occidente. Spagna, Dallas e infine New York. Ne siamo tornati e possiamo dire che nessuno ci ha controllati. Anzi, il paradosso sta nel fatto che l'unico a preoccuparsi della possibile globalizzazione della malattia sia stato il paese più povero al mondo: la Repubblica Centrafricana. Dove eravamo diretti con tanto di scali tra il Maghreb e il Golfo di Guinea. "La Ue", ha spiegato il commissario europeo alla Salute, Tonio Borg, lo scorso 16 ottobre "procederà subito a una verifica dell'efficacia dei controlli contro l'Ebola organizzati negli aeroporti dei Paesi africani colpiti dal contagio. Ma i Paesi di arrivo dei voli si muoveranno in modo sparso". La frase è stata interpretata alla lettera. Di più: in ordine così sparso che, alla fine, i veri controlli li fanno i Paesi africani nonostante le immagini dei tg ci bombardino giorno e notte sugli effetti del virus. Quando ci imbarchiamo da Malpensa per Bangui, a campeggiare nella nostra testa dovrebbe essere l'emozione di portare a termine un reportage sulla guerra civile. Nei giorni immediatamente prima della partenza sono riscoppiati gli scontri tra le due fazioni: Seleka e Anti Balaka. Sono stati uccisi caschi blu e feriti una cinquantina di abitanti della capitale. Invece, tutti ci dicono di stare attenti all'Ebola. È vero Bangui è lontana dall'epicentro. I nostri scali programmati sono Casablanca e Duala in Camerun. Ma è altrettanto vero che in passato anche in Congo e Guinea ci sono stati casi e l'interno Golfo è a rischio. Quando arriviamo a Casablanca l'agitazione cresce. Dal gate a fianco stanno uscendo passeggeri appena sbarcati dalla Liberia. Chiediamo a una hostess e a un poliziotto quale è la prassi. Risposta: nessun controllo. Un riflesso condizionato ci porta a tapparci il naso e la bocca. Una manciata di secondi, poi la razionalità ovviamente ha la meglio. Non è certo così facile contagiarsi, lo sappiamo. Fluidi e bla bla bla. Eppure un controllo non guasterebbe, tanto più che il governo di Rabat ha da poco annunciato l'intenzione di cancellare la coppa d'Africa prevista per la prossima primavera. Se il timore è così forte, perché non cominciare a fare un po' di controlli? Di prevenzione? Perchè non coordinarsi davvero a livello globale. In fondo pochi anni fa per l'influenza aviaria si fece molto di più e fin dall'inizio. Per questo quando l'indomani mattina il nostro volo Royal Air Maroc atterra a Bangui, dopo aver fatto scalo in Camerun, i timori evaporano. Vanno a confondersi con l'umidità che stagna attorno alle suole delle scarpe. E lasciano il posto allo stupore. Ai piedi del velivolo è stato allestito un tendone. I pochi passeggeri sono in coda e due operatori con mascherine e guanti controllano il livello di salute. "Verifiche anti Ebola", ci dicono. Al nostro turno l'addetta ci punta alla fronte una pistola e ci misura la termperatura. Poi il polso. Venti secondi di attesa e il verdetto. Il beep equivale al semaforo verde. "We're Ebola free", scappa detto al nostro vicino di coda. In effetti, non destiamo sospetti e possiamo procedere. Fare i controlli doganali e dirigerci in città o almeno in ciò che rimane della capitale. Dopo cinque giorni torniamo sui nostri passi. Stavolta con un volo AirFrance. Da Bangui facciamo scalo a Yaoundè, sempre in Camerun. Le autorità ci fanno scendere. L'aereo deve essere rifornito e pulito.  Quando ci affacciamo al finger, troviamo un'infermiera a controllare la nostra fronte. L'impressione che sia più immagine che sostanza. Dopo due ore imbarchiamo. Assieme a un centinaio di altre persone. Per queste ultime nessun check up. Il viaggio è veloce: dormiamo tutto il tempo. All'atterraggio ci svegliamo bruscamente. L'aeroporto di Parigi è troppo grande e le coincidenze si perdono molto spesso. Linate dopo tante ore potrebbe essere un miraggio. Invece no. Non stavolta. Perchè ad attenderci all'uscita del velivolo non c'è nessuno. Zero controlli. Niente di niente. Nemmeno un termometro. Eppure le condizioni igieniche del nostro luogo d'origine sono quasi indescrivibili e di mani ne abbiamo strette tante. di Claudio Antonelli

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