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Facci: Mori, cronaca di un processo assurdo

Filippo Facci visto dal nostro Vasinca

Pentiti e pm indecisi: quante falle nelle accuse al generale dei carabinieri

Giulio Bucchi
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L'irrilevanza e l'assurdità del «processo Mori», a Palermo, rischia di far passare inosservato anche l'incredibile. Il generale è accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e di non averlo catturato quando avrebbe potuto, ma una lettura attenta della sua memoria difensiva - presentata in aula il 7 giugno - lascia perplessi indipendentemente dalla simpatia o antipatia che il personaggio possa destare. La memoria di 160 pagine è interamente in rete (www.censurati.it) ma a non quadrare, a ben vedere, sono anche alcuni documenti prodotti dall'accusa. Sia la difesa che l'accusa, infatti, ricordano come la mancata cattura di Provenzano fu anzitutto dovuta al depistaggio operato dai sottufficiali Giuseppe Ciuro e Giorgio Riolo: quest'ultimo lavorava alla sezione  palermitana dei Ros, ma il primo - la vicenda è nota - era distaccato nell'ufficio di Antonio Ingroia e lavorava a stretto contatto con lui. È assodato che Giuseppe Ciuro fosse una talpa interna alla procura e che chiacchierasse con Michele Ajello, ex re delle cliniche siciliane già legato a Provenzano. Sono cose che possono succedere solo in Sicilia: Ciuro, prima di essere scoperto dai pm, aveva persino procurato ad Ingroia un'impresa che ristrutturasse un casolare paterno a Calatafimi, col paradosso che   l'impresa scelta da Ciuro fu proprio quella del mafioso Aiello. Ciuro all'epoca era ancora il braccio destro di Ingroia (in Procura li chiamavano «puri e ciuri») e al mare avevano i villini affiancati, laddove per un'estate si affaccerà anche l'incolpevole Marco Travaglio che era legato a entrambi (a Ciuro e a Ingroia) ma che a ricordargli l'episodio, ogni volta, perde il lume della ragione. La circostanza, professionalmente imbarazzante, non impedisce che anche in questi giorni Travaglio seguiti a pontificare sul caso Mori e a scagliarsi contro chi lo difenda. Ajello, dicevamo, è stato riconosciuto colpevole di associazione mafiosa e ha beccato 15 anni: Riolo ha beccato sette anni per concorso esterno; mentre Ciuro, ammesso al rito abbreviato con l'accusa di favoreggiamento, ha preso quattro anni e otto mesi. Ed è una memoria della Procura, e non della difesa, a ricordare che Ciuro e Riolo, oltreché il mafioso Mario Ajello, «da molti anni fornivano notizie segrete e rivelazioni sulle indagini del Ros finalizzate alla cattura dei latitanti Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro». La memoria è datata 1 settembre 2004 ed è firmata dai pubblici ministeri Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Maurizio De Lucia e Antonio Di Matteo. Sì, Antonio Di Matteo: qualcuno avrà già notato la contraddizione. Di Matteo, infatti, oggi rappresenta l'accusa contro Mario Mori: in pratica lo incolpa di ciò che lui stesso, anni addietro, aveva attribuito ai depistatori Ajello e Riolo e Ciuro. Di Matteo, cioè, nel 2004 scriveva che Provenzano non veniva catturato perché un collaboratore di Ingroia lo informava indirettamente delle mosse dei Ros e dei magistrati, ma oggi addebita la mancata cattura al generale Mori. Il contrasto è evidente e il primo a notarlo è stato l'ex direttore dell'Unità Emanuele Macaluso in una lettera pubblicata sul Foglio di mercoledì, ripresa ieri dal Corriere della Sera. Da quanto inteso, il pm Di Matteo si prepara a metterci una pezza: ha già fatto capire che i fatti addebitati a Mori e il depistaggio dei succitati apparterrebbero a periodi diversi. Mori, cioè, avrebbe favorito la latitanza di Provenzano fino al 1996, gli altri invece per fatti  dal 2001 al 2003. In questo il pm non ha torto: bastava guardare alla richiesta di condanna pronunciata da Di Matteo contro il generale  (9 anni di galera chiesti il 24 maggio scorso) per accorgersi che i fatti addebitati risalirebbero all'ottobre 2003. Ma le contraddizioni di Di Matteo parrebbero anche altre. L'accusa al generale Mori si deve principalmente alla denuncia dell'ex colonnello Michele Riccio, già condannato a Genova per furto di stupefacenti: ma fu lo stesso Di Matteo, da principio, ad archiviare le stesse accuse in data 1 giugno 2006. E quello che non si capisce, tantomeno dal processo, e che cosa abbia convinto Di Matteo (e Antonio Ingroia) a riaprire la questione. A meno di credere che sia stata sufficiente qualche parolina aggiuntiva a opera dell'affidabilissimo Massimo Ciancimino, il quale in effetti ha successivamente riferito di contatti tra il generale Mori e suo padre, il mafioso Vito Ciancimino. Mori peraltro non ha negato i contatti: li ha ammessi in più sedi giudiziarie e li ha attribuiti al tentativo di acquisire notizie per poter catturare i grandi capi mafia, come poi fece. Secondo Ciancimino, invece, Mori parlava con suo padre perché voleva instaurare una trattativa che interrompesse le stragi dei primi anni Novanta. La parola del generale Mori contro quella di Massimo Ciancimino.   di Filippo Facci

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