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La procura di Roma insiste: nella capitale c'è la mafia

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Gino Coala
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Nella capitale, la Mafia esiste. Anzi, per dirla con le parole usate oggi dal procuratore aggiunto Giuseppe Casini nel processo di Appello in corso nell'Aula bunker di Rebibbia: “Non si tratta qui di decidere se a Roma c'è la mafia, ma se questa associazione criminale si connota di alcuni elementi del 416 bis”. La Procura di Roma e la Procura generale insistono: quella capeggiata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è un'unica associazione criminale di natura mafiosa. Così i pg Pietro Catalani e Antonio Sensale, l'aggiunto Giuseppe Cascini, e il pm di Roma Luca Tescaroli hanno chiesto condanne per un totale di 430 anni di carcere per i 43 imputati. Per 19 dei quali sono tornati a chiedere la condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, ovvero l'applicazione del 416 bis (caduto per tutti con la sentenza di primo grado). Le richieste di pena più alte, quelle per i presunti boss del sodalizio che voleva spolpare la pubblica amministrazione: 26 anni e 6 mesi di carcere richiesti per Carminati, di cui si ribadisce il ruolo di “capo e organizzatore” dell'associazione, e 25 anni e 9 mesi di reclusione per il “sodale” Buzzi, ras della cooperativa “29 Giugno”. Che cosa è rimasto, dunque, di “Mafia Capitale” a distanza di otto mesi dalla sentenza di primo grado, che il 20 luglio 2017 ha sparigliato le carte (almeno quelle della Procura) derubricando la pesantissima accusa di associazione di stampo mafioso in due distinte associazioni di stampo criminale “ordinarie”? A guardare bene, tutto e niente. Gli imputati - eccetto Carminati (trasferito, ma non più al 41 bis, nel carcere milanese di Opera) e Buzzi (rimasto a Tolmezzo) - sono ormai tutti fuori. Chi ai domiciliari come Riccardo Brugia, chi a piede libero. Alcuni sono tornati al loro posto di lavoro, per chi ancora un lavoro l'ha mantenuto (o l'ha mai avuto). C'è persino chi ha trovato, a Rebibbia, l'anima gemella, chi ha scritto un libro sulla propria vicenda giudiziaria (Claudio Caldarelli) e chi ha potuto uscire dal processo assolto dalle principali imputazioni, come l'ex dirigente Ama Giovanni Fiscon o i due presunti mafiosi Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, andati assolti in primo grado, Contro la cui assoluzione la Procura ha fatto ricorso, rievocandone oggi i legami con il potente clan calabrese dei Mancuso e chiedendo la pena di 16 anni ciascuno come “responsabili del delitto associativo”. Così stamattina nel bunker di Rebibbia, ormai quasi svuotata nel settore stampa, i magistrati dell'Appello hanno concluso la lunga requisitoria, durata quattro udienze, rievocando il cuore e i contorni dell'associazione ribattezzata “Mafia capitale” e le sue peculiarità, che per i pm la qualificano, indiscutibilmente, come un'associazione da 416 bis anche secondo l'orientamento più recente della Cassazione. A partire dal controllo del territorio, “che può essere orizzontale o verticale” e può essere addirittura “un dato implicito”, effettuato da almeno tre persone “e non serve nemmeno che siano violente, liberandoci così da un pregiudizio e da un'immagine oleografica da film alla Scola” come ha spiegato per l'accusa Cascini, incrociando a tratti lo sguardo di Brugia, seduto una fila dietro di lui, accanto al suo avvocato Giosuè Bruno Naso. La Procura generale, per bocca del pg Antonio Sensale, ha esortato il tribunale della III sezione penale della Corte di Appello di Roma a “un atto di coraggio”: “ Vi chiediamo con convinzione la riqualificazione del reato associativo, vi chiediamo non una sentenza esemplare, ma una sentenza coraggiosa”. Per passare, subito dopo, ad elencare le richieste di condanna (spesso inferiori a quelle avanzate in primo grado, ndr) davanti al nuovo collegio giudicante : 26 anni e 6 mesi di carcere richiesti per Carminati; 25 anni e 9 mesi di reclusione per il “sodale” Buzzi; 24 anni per Brugia, considerato il braccio destro del Nero dai tempi dei Nar. Passando per i 18 anni e 6 mesi chiesti per Gramazio, definito “mente operativa” del gruppo, ai 14 anni e 6 mesi invocati per Franco Panzironi, ex ad di Ama, fino ad arrivare ai concordati, ovvero i patteggiamenti chiesti e accettati per Luca Odevaine (5 anni e 2 mesi la richiesta di condanna) e Claudio Turella (6 anni), oltre alla conferma della confisca dei beni, definiti “ingenti”, ritenuti proventi di attività illecite. Ma il perno delle richieste della procura, come spiegato dall'aggiunto Cascini, non è solo la riconferma delle pene, incluse le aggravanti, ma è dimostrare l'incoerenza di fondo – anche in punta di diritto – dei presupposti su cui si è basata la sentenza di primo grado: laddove “non ha saputo valorizzare le intercettazioni come prove di reato”; dove non ha tenuto conto (pur prendendone atto) “delle condizioni di assoggettamento delle vittime chiamate a testimoniare in Aula”; dove non ha calibrato la portata della “riserva di violenza” e del “capitale criminale” apportati da Carminati negli affari delle società di Buzzi, “che gli consentono di diventarne socio al cinquanta per cento”; laddove, infine, il tribunale ha sminuito persino la rilevanza storica (“nonostante l'esistenza di due sentenze, pur se di esito controverso”) della Banda della Magliana, associazione criminale tra le più efferate della capitale, di cui il Nero è stato, anche a detta di ex membri sopravvissuti alle faide interne, uno dei volti più oscuri. Cosa resta, dunque, di Mafia capitale oggi? Al di là delle richieste di condanna, restano i 43 imputati, con i loro reati e i loro trascorsi personali. Alcuni hanno cambiato radicalmente vita (tutti gli ex amministratori locali, da Coratti a Pedetti a Tassone fino a Gramazio, il più visibilmente provato), mentre altri si sforzano di tornare alle precedenti attività (“Ho ancora un po' di credibilità in giro e mi fanno fare qualcosa”, sorride amaro un imprenditore un tempo sulla cresta dell'onda). Come se oltre due anni di processo, per alcuni trascorsi in carcere a Rebibbia, non avessero stravolto tutto. Stravolta è stata sicuramente la vita del benzinaio Roberto Lacopo, per cui oggi la Procura generale ha chiesto 19 anni di reclusione, ribadendone il ruolo di “partecipe” all'associazione mafiosa di Carminati. Sia per avergli messo a disposizione quella che è considerata “la base” logistica dell'associazione, sia per esserne di fatto divenuto un complice attivo, protagonista nel ruolo di alcune vicende di natura usuraia ed estorsiva. Anche se in tribunale, nelle varie udienze di primo grado, quasi tutte le parti lese hanno scagionato Lacopo dal ruolo di estorsore o di persona violenta. E proprio sulla figura di Lacopo qualche dubbio sorge, quando si pensa che Carminati e Brugia erano al corrente da tempo della presenza delle videocamere installate nell'area del distributore Eni di Corso Francia. Tanto che quando Mokbel si reca al distributore, il 28 agosto 2013 per parlare con il Nero, il loro colloquio avviene lontano dall'area videosorvegliata e non sarà registrato. Circostanza di cui Lacopo, e anche lo “spezzapollici” Matteo Calvio (per lui la richiesta è di 18 anni di reclusione), non erano invece al corrente. Sarà lo stesso Carminati a “invitare” Calvio ad allontanarsi dal piazzale della stazione di servizio, in un'occasione in cui questi vorrebbe regolare i conti con un debitore del padre del benzinaio, Giovanni Lacopo. Altra incongruenza: se l'associazione mafiosa presuppone un vincolo anche minimo di solidarietà tra gli associati, non si spiega la strana vicenda del furto della Porsche Cayenne di un cliente, avvenuto nel 2002 all'interno del distributore di benzina di Corso Francia, sotto gli occhi di tutti. Quando proprio a Roberto Lacopo viene rubata, in pieno giorno, una macchina di lusso, non assicurata, dal valore di circa 110mila euro. Un'auto, come ricorda oggi Lacopo, “che in dieci giorni aveva avuto cinque passaggi di proprietà”. Un furto compiuto mentre Lacopo è assente dal posto di lavoro e che lo costringerà a ripagare il danno, dopo aver perso nel 2010 la causa in sede civile, con dieci assegni da 10mila euro l'uno, grazie ai soldi di un prestito ottenuto da Brugia. “L'inizio della fine”, come lo rievoca oggi il benzinaio e come lo descrive in un colloquio in carcere da lui richiesto davanti al pm Tescaroli il 4 aprile 2015, “perché nel frattempo avevo preso un mutuo per pagare una casa ancora in costruzione per mia figlia, e mi sono ritrovato strozzato”. Nel benzinaio di Corso Francia, è accertato, Carminati era di casa. Tanto da sembrare, ad alcuni, il vero padrone. Eppure, il Cecato vi entra in un secondo momento, introdotto proprio da Brugia, per non andarsene più. “Io conosco Brugia perché abitavamo nella stessa via, frequentavamo il bar Ansuini insieme a Carminati, eravamo iscritti tutti alla palestra di Manlio Denaro, insieme ad altri personaggi delle tifoseria della Roma e della Lazio. Prima di arrivare a Corso Francia, loro stazionavano in un altro distributore, quello di Tor di Quinto” racconta chi ha frequentato il gruppo, prima che si insediasse nel distributore (economicamente molto redditizio) di Corso Francia. Un distributore a poche centinaia di metri dal negozio di abbigliamento della compagna di Carminati. “Io lavoro da quando ho 12 anni. È vero che ho legato subito con Brugia, andavamo allo stadio insieme e con Carminati erano una presenza fissa nella mia pompa di benzina - racconta Lacopo – “una volta ho chiesto a un mio cliente, un carabiniere: ma è un problema se loro stanno sempre qui e qualcuno ci vede assieme? Perché ogni anno io dovevo presentare all'Eni il certificato antimafia. Ma lui mi ha tranquillizzato: meglio se ti vedono, così si accorgono che tu stai sempre a lavorare e con loro non c'entri un cazzo”. A posteriori, per il benzinaio Lacopo non è andata così. di Beatrice Nencha

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