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Marina Berlusconi, la pièce sulla figlia del Cav è come la brutta inquisizione

Andrea Tempestini
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Non è del tutto chiaro quale scopo si proponesse Emilia Costantini scrivendo la pièce Intervista immaginaria a Marina Berlusconi, ed è un dubbio che la visione dello spettacolo - andato per la prima volta in scena giovedì sera al Todi Festival dopo aver fatto parlare molto di sé essenzialmente perché dedicato alla primogenita del Cavaliere - non fuga bensì rafforza. L'autrice sostiene di aver voluto svolgere una critica del culto del denaro prendendo spunto dalla vicenda umana di Marina Berlusconi, vista quale simbolo di un potere protervo che si perpetua per via dinastica. Può darsi senz'altro che le intenzioni fossero queste. E certamente dal testo - costituito da un assemblaggio di frasi autentiche della Berlusconi e di dichiarazioni inventate dalla Costantini, la quale le ha messe in bocca a Marina dopo averle elaborate cercando ispirazione molto in alto (da Shakespeare a Ibsen) - emerge la poca simpatia dell'autrice nei confronti di una donna a cui rimprovera, come minimo, un'eccessiva e interessata indulgenza nei confronti delle spregiudicate condotte paterne. Tuttavia è fuori discussione che Intervista immaginaria generi quella che si definisce un'eterogenesi dei fini. Voleva cioè andare da una parte, ma finisce da quella opposta. Nel senso che, al termine dello spettacolo, è umanamente impossibile non provare un forte senso di solidarietà, se non autentica empatia, non solo verso Marina Berlusconi ma pure per il di lei genitore, evocato di continuo dalla pièce. Nel suo approccio all'argomento trattato, un approccio che nonostante i buoni propositi risulta fatalmente ideologico (come sanciscono i ripetuti riferimenti all'Opera da tre soldi di Brecht, la cui colonna sonora rappresenta la spina dorsale musicale di Intervista immaginaria), la Costantini non riesce a rivolgere a Marina Berlusconi - in carne e ossa o simulacro che sia - nessuna accusa degna di tal nome. NON SA CUCINARE Le si rinfacciano colpe risibili, dal non saper cucinare al non essersi laureata, a cui la Berlusconi, interpretata da un'impostatissima Laura Lattuada, non ha praticamente mai nulla da replicare, data appunto l'assoluta inconsistenza dei capi d'imputazione. Ma a far uscire alla grande la figura di Marina contribuisce specialmente l'autolesionistica messinscena del regista Filippo Crivelli, il quale, sortendo effetti involontariamente caricaturali, caratterizza i quattro giornalisti che interrogano la figlia di Berlusconi come i componenti di uno scalcinato tribunale del popolo ribollente di odio di classe nei confronti dei perfidi (soprattutto in quanto non di sinistra) ricchi. Oltre a due ragazzotti (impersonati dagli attori Stella Piccioni e Giacomo Troianiello) forniti di quell'arrogante insipienza che è spesso tipica della gioventù, gli altri due inquisitori sono un tipo barbuto (Piero Baldini) col classico look post sessantottino (non si nega neppure il codino) e una signora (Rosalina Neri) con l'aspetto di una Franca Rame talmente rintronata da incespicare su una buona decina di battute. Già, perché un'altra impressione fortissima (e se fossimo in Emilia Costantini ce ne risentiremmo non poco) è che Crivelli abbia portato in scena lo spettacolo senza averlo ancora messo a punto, visti la quantità di errori e sporcature e il continuo ricorso dei due attori più anziani alla lettura del copione (con la scusa di stare interpretando dei giornalisti che rivolgono domande a un'intervistata). Malgrado gli intermezzi musicali, lo spettacolo è registicamente piuttosto povero e di sicuro non lo valorizzano le tremende schermate esplicative, per lo più a base di irridenti ritratti fotografici della famiglia Berlusconi, che vengono fatte scorrere alle spalle degli attori per l'intera durata della pièce. IL PARADOSSO Anche al netto dei difetti tecnici (rimediabili in vista di eventuali riprese future), Intervista immaginaria appare come un lavoro schiacciato sulla cronaca, per di più una cronaca che è ormai stantia, e che quindi non corona l'ambizione di assurgere a opera universale, in grado di toccare i temi ultimi come riesce al grande teatro. Decretando inoltre, per paradosso, una sorta di trionfo berlusconiano. Un po' come accadde quando, a Servizio Pubblico di Santoro, Marco Travaglio provò a mettere spalle al muro il Cav, il quale alla fine gli spolverò la sedia. Scene già viste, insomma, con la differenza che lì, almeno, anziché attori poco ispirati c'erano gli originali. di Giuseppe Pollicelli

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