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Lotta alla fake news: le bufale sono un'industria, scoprirle è sempre più difficile

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Giulio Bucchi
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«Perchè sporcare con la verità un così bel racconto?...» ironizzava il Pulitzer Bob Woodward. Il quale riteneva che nel giornalismo - sin dai tempi delle Hoax, i reportage/frottola del cronista Mark Twain- la verità assoluta non esistesse; e che, al massimo, il giornalista potesse impegnarsi nella «miglior versione possibile della verità». Woodward non conosceva il network di Giancarlo Colono. Colono è titolare della Web365, azienda a conduzione familiare composta da sei persone più un team di giornalistiper diffondere in maniera deliberata bufale, notizie copiate e disinformazione. Un vero network di 170 domini Internet e diverse pagine che fa i soldi spacciando per notizie le bufale, i pezzi di carattere religioso oppure post che puntano sul sensazionalismo anti immigrati e sul clickbaiting, (la tecnica di costruire titoli sensazionalistici per attrarre clic dagli utenti). Un' inchiesta di BuzzFed ha smascherato il business. Ma ha anche illuminato la fragilità di noi paladini della libera stampa. Solo l' altro giorno, autorevoli testate nazionali sono cascate nell' inganno della bambina islamica picchiata dal padre e nella cancellazione totale della Domenica in delle Parodi. Non c' è da puntare il ditino, ci saremmo potuti cascare tutti. Il filosofo Maurizio Ferraris nel saggio Postverità e altri enigmi (Il Mulino) ritiene che la predisposizione all' informazione striata di menzogna sia «un' emergenza che definisce una caratteristica essenziale del mondo contemporaneo: l' alleanza tra la potenza modernissima del web e il più antico desiderio umano, quello di aver ragione a tutti i costi». Infatti, Ferraris ha ragione. Certo, noi tutti cronisti di mezz' età, l' ultima generazione cresciuta sul sudore da suole di scarpe e sul riscontro quasi ossessivo delle fonti, potremmo chiudere il discorso imputando l' omesso controllo ai colleghi più giovani inchiodati al desk e alle fatiche del copia- e incolla. Ma sarebbe una soluzione semplicistica al problema. La colpa è molto più diffusa. Ed è vero che le fake news, le bufale, sono sempre esistite. Io stesso, nel 1998, ad una Mostra del Cinema di Venezia lanciai nel deserto di notizie, una fake con la complicità dei colleghi delle agenzie di stampa, su una presunta associazione pseudoreligiosa di maschilisti che voleva mettere a ferro e fuoco il Lido per l' eccessiva presenza di attrice donne. L' associazione Ri. Ma. , Rifondazione maschilista, esisteva (ne facevo parte); ma non aveva la minima intenzione di fare dichiarazioni bellicose. Ricordo che quella sòla fu ripresa da tutti i quotidiani nazionali; il Tg2 ci aprì perfino il suo approfondimento. Quella goliardata, oggi , è caduta in prescrizione, ma le redazioni potevano evitarla. Oggi è diverso. Oggi vige il "giornalismo a rete" (definizione di Charlie Beckett): chiunque può accedere a molte fonti di informazione e allo stesso tempo «creare un contenuto informativo con bassi costi e alte potenzialità di distribuzione». Le fake sono un' industria, il fenomeno oramai è incontrollabile. Chi usa notizie false per influenzare le opinioni politiche o per motivi commerciali può, per esempio, contare sull' «effetto-bolla» dei social network; e Facebook e Google News impaginano le notizie in una modalità omogenea, uguale sia per il Washington Post che per i siti terribili, appunto, di Giancarlo Colono. Quindi la capacità di controllo delle fonti da parte di noi giornalisti è messa a durissima prova. E molti di noi si rendono complici involontari di misinformazione, cioè di condivisione di informazioni false. Altro problema è che i giovani colleghi, privati della consuetudine all' inviatura e inchiodati al pc in un' impaginazione talora ai limiti delle catatonia, sempre più spesso difettano di capacità di factchecking, di controllo immediato dei fatti (figuriamoci, non lo facciamo più, ormai demoralizzati, noi vecchi). Tutto questo ci porta ad un concetto di verità molto più lasco di quello di Bob Wooward...  di Francesco Specchia

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