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Cofferati: "Potevo fare il segretario. Poi D'Alema e Veltroni..."

Nicoletta Orlandi Posti
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E lei, Sergio Cofferati, che fine ha fatto? «Sono alla mia seconda legislatura da parlamentare europeo. Faccio il vicepresidente della commissione per il Mercato interno. Mi sono occupato molto della crisi economica e sociale internazionale, sono stato il coordinatore dei socialisti nella commissione straordinaria sulla crisi del Parlamento europeo». In Italia è un desaparecido. «I temi europei purtroppo non hanno grande riscontro nel dibattito nazionale. È normale che chi fa il parlamentare a Strasburgo sparisca dalla scena». Lei ha fatto la storia della Cgil e del centrosinistra. Si aspettava maggiore considerazione? «Niente affatto. Ho scelto io di seguire le tematiche europee». Eppure c'è stato un momento in cui i Ds aspettavano solo che lei allungasse la mano per prendere il partito. «Le sollecitazioni perché diventassi il leader del centrosinistra sono state molto forti nel 2002, dopo l'ultima sconfitta elettorale che portò al governo Berlusconi. Ma ero il leader della Cgil e decisi di non scendere in campo. Volevo portare a compimento il mio mandato sindacale, che finì nel 2003». Come mai a quel punto non si buttò in politica? «Sapevo di avere ottime chance di diventare il futuro segretario dei Ds, ma decisi di prendere un'altra strada». I compagni le avevano sbarrato le porte del Botteghino? «Se mi fossi candidato alla segreteria, nel congresso sarebbe venuto fuori chi mi osteggiava. Ma visto che non mi sono candidato non si possono attribuire simili intenzioni a nessuno. Certo: nei Ds, come già nel Pds e nel Pci, la dialettica è sempre stata molto forte. Ed è noto che nel partito c'era chi contestava molte delle cose che avevo fatto in quegli anni». Tra lei e D'Alema volavano gli stracci, diciamo. «Non solo con D'Alema, anche con Veltroni. Ricordo un congresso dei Ds in cui Walter nella sua relazione criticava la Cgil, io gli risposi e D'Alema, nel suo intervento conclusivo, mi criticò duramente. Ma il rapporto di amicizia con i capi del mio partito era vero e non è mai stato messo in discussione, neanche da quelle polemiche così aspre». Perché tutti i leader Ds ce l'avevano con lei? «Perché mi consideravano un radicale spinto. È paradossale: la mia storia nel Pci si è sempre svolta nell'area riformista. Negli anni '80 e '90 mi collocavo nell'area migliorista di Napolitano. Appartenevo alla destra comunista. Quando ero nel sindacato dei chimici e poi nella segreteria confederale della Cgil venivo spesso criticato». Circo Massimo, 25 marzo 2002. Tre milioni di persone l'acclamano nella più grande manifestazione sindacale di tutti i tempi. Non si sentì leader nemmeno in quel momento? «Ero il segretario della Cgil, un grandissimo sindacato con una storia secolare. Nulla di più. Non ho mai sovrapposto le funzioni della rappresentanza sindacale a quelle politiche. Anzi, ho sempre considerato un valore importantissimo l'autonomia del sindacato dal partito». Però poi è sceso in campo. «Veramente quando ho finito di fare il segretario della Cgil sono tornato a lavorare alla Pirelli». Durò poco: l'anno dopo si mise in corsa per fare il sindaco di Bologna. «Me lo proposero i Ds dell'Emilia-Romagna e di Bologna. E io accettai. Ma non mi sono mai candidato a nessun ruolo nel partito». Quanto ha influito la sua vita personale nella scelta di non cercare un secondo mandato? «Moltissimo. Non mi ricandidai a sindaco di Bologna perché quando nacque mio figlio preferii dare priorità alla famiglia cercando una soluzione che non penalizzasse il lavoro della mia compagna. Mi trasferii a Genova, nella città di quella che adesso è mia moglie. Non pensavo di fare il parlamentare europeo». Chi glielo propose? «Il segretario del Pd, Dario Franceschini, mi chiese di candidarmi alle Europee del 2009. Accettai perché è un incarico che mi consente di tornare a casa il fine settimana». Come sono i suoi rapporti con il segretario attuale? «Buoni». Ogni quanto vi sentite? «Mai. Il lavoro dell'europarlamentare è scisso dal partito nazionale. Spero che presto non sia più così». Si riconosce nel Pd di Renzi? «Al congresso ho votato per Cuperlo. La sua idea di partito mi convinceva più di quella di Renzi. Ma per me vale un principio: il congresso finisce con un segretario che è di tutti. Questo non impedisce agli altri di far valere le proprie opinioni, ma in politica è buona regola lavorare insieme per l'interesse comune». Che giudizio dà di Renzi come premier? «Penso che stia facendo un lavoro molto difficile e vada aiutato». Anche se vuole abolire l'articolo 18? «Non è Renzi che l'ha messo in discussione, ma Alfano». Veramente il premier ha detto che intende riscrivere l'intero statuto dei lavoratori. «Renzi non ha inventato niente. L'idea di ampliare lo statuto dei lavoratori, pietra miliare dei diritti delle persone che lavorano in Italia, è nostra. Nel 2003 la Cgil promosse una raccolta firme su un testo di legge d'iniziativa popolare per la scrittura di un nuovo sistema di diritti che salvaguardasse anche chi non era tutelato». L'articolo 18 risale al 1970. Non crede che siano maturi i tempi per cambiarlo? «Trovo la discussione surreale perché purtroppo l'articolo 18 non c'è più. È stato cancellato dalla legge Fornero, che introduce la possibilità di licenziare per ragioni economiche». Il governo Renzi vuole andare oltre. «Se intende davvero svuotare ulteriormente l'articolo 18 farà azioni senza efficacia che non saranno apprezzate neanche dagli imprenditori. Aumentare la flessibilità in entrata e in uscita ha solo fatto crescere la disoccupazione giovanile». Non la convince la riforma del lavoro avviata da Renzi? «Il decreto Poletti non ha sortito effetti di nessun genere, la crescita della disoccupazione non è nemmeno rallentata». E il Jobs act nel suo complesso? «Vedremo di che si tratta. Ad oggi abbiamo solo i titoli, mancano testi dettagliati». Dia un consiglio a Renzi sul lavoro. «Gli chiedo un piano straordinario basato sugli investimenti pubblici, cioè una vera azione keynesiana che sia in grado di dare nuove opportunità di lavoro. Solo con gli investimenti e con l'aumento dei consumi si può creare, attraverso la crescita della domanda, occupazione». Ma il Pil è in calo. «Appunto. Proprio perché non avremo crescita e ci aspettano mesi difficili, in cui la disoccupazione e l'aumento della povertà penalizzeranno molti italiani, serve un piano straordinario per il lavoro. L'Europa metterà a disposizione molte risorse nei prossimi mesi, ma queste per essere utilizzate hanno bisogno di progetti. Il governo italiano si deve attrezzare per sfruttare al meglio i fondi europei, che usiamo pochissimo perché siamo deficitari sul piano della progettazione». Con Renzi non è cambiato nulla? «Finora non mi pare che questo governo abbia utilizzato le risorse europee. Siamo rimasti all'ottimo lavoro fatto da Fabrizio Barca, che poi però non ha trovato una sua realizzazione concreta». Renzi non dà l'impressione di piacerle molto. «È una persona molto simpatica e coraggiosa». Ma lo sente come suo leader? «Al segretario del Pd io chiedo di riorganizzare il partito rafforzandone radicamento e struttura. Il grandissimo valore del partito, dal Pci in avanti, è stato la fortissima presenza nei territori, tra le persone. Negli ultimi anni questa presenza si è attenuata». E quel 41% alle Europee come lo spiega se non con la popolarità di Renzi? «Io non credo ai partiti leggeri, leaderistici. È molto importante il rapporto diretto con le persone». Lei fu quello che impedì a D'Alema di fare la riforma delle pensioni. Vi siete mai chiariti? «È una leggenda metropolitana. La riforma delle pensioni si fece con Dini presidente del Consiglio nel '94. Anche se il testo di riforma uscito dal Parlamento era molto meno rigoroso dell'accordo fatto da Dini con noi sindacati». D'Alema provò a fare una riforma più ambiziosa di quella di Dini. E lei lo stoppò. «La riforma Dini prevedeva una verifica dopo un certo numero di anni. D'Alema voleva anticiparla e noi gli dicemmo di no». Oggi la Cgil e la Fiom sono ai ferri corti. Colpa della Camusso o di Landini? «Anche ai miei tempi i rapporti con i metalmeccanici erano molto aspri. Allora erano guidati da Claudio Sabattini, persona di grandissima intelligenza. La Fiom è una grande organizzazione di categoria e Landini è un ottimo sindacalista. Susanna deve trovare tutti gli elementi di convergenza che possano rendere più forte il sindacato. La Fiom è una parte importante della Cgil. Anzi, è la categoria industriale più grande». di BARBARA ROMANO

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