Cerca
Logo
Cerca
+

Vittorio Feltri su Paolo Mieli: "Perché riesce sempre a capire dove andrà la storia"

Andrea Tempestini
  • a
  • a
  • a

La parola intelligenza deriva, come so persino io, dal latino intelligere: leggere tra le righe. Paolo Mieli è il miglior lettore tra le righe che ci sia in circolazione in Italia. Insomma, è il più intelligente di tutti. Ha questa capacità di osservare un fatto singolo, di svelarne il lato curioso, catturando così l'attenzione del lettore, che viene accompagnato dal particolare all'universale. L'universale è poi quello che alla fine pensa lui. Ma lo pensa così bene, che appare essere una verità incontrovertibile. La tecnica è sublime: illustra il dettaglio che fa essere singolare un evento, poi lo trasferisce con gli argani della sua mente come tassello di un grande mosaico, che è la storia d'Italia. Sono queste le qualità che Paolo Mieli esibisce, unendo al meglio le sue doti di storico e di giornalista, nel libro Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto (Rizzoli, pagine 350, euro 20). In questo volume, godibile e scientificamente stringente, l'ex direttore del Corriere della Sera dimostra che in Italia la propensione al compromesso, la rinuncia all'alternanza in politica (e io aggiungo: anche nella vita), è un carattere nazionale atavico e si scorge persino prima dell'Unità d'Italia. Noi siamo abituati a considerare il consociativismo, l'accordo per cui al governo è rimasto un unico partito (la Dc), con alleanze progressive di centro o di sinistra, e con una spartizione sotterranea prima e poi esplicita con l'opposizione (nel nostro caso il Pci), come una caratteristica del secondo dopoguerra, perdurando poi fino alla cosiddetta seconda Repubblica con il suo maggioritario. In realtà già ai tempi di Cavour, nel parlamento piemontese, c'erano state tendenze a compromessi e accomodamenti. TRASFORMISMI Tutto questo è diventato normale dopo il 1861. Si passava da governi di destra a governi di sinistra, ma questi cambi non sono mai frutto di scelte degli elettori, ma le hanno sempre precedute. Perché la destra tinteggiava per tempo la sua divisa, sfumandola verso il rosso, e a sua volta la sinistra si smacchiava lasciandosi confondere volentieri con altri colori. Insomma: la politica e i governi italiani, per usare un termine calcistico, è sempre stata piuttosto ambidestra. Il trasformismo non è nato con Depretis: semplicemente è stato lui a teorizzare il voltagabbanismo. Allora, non erano rappresentate le masse cattoliche e socialiste poiché il voto era per censo, e oltretutto il Papa vietava anche alla borghesia cattolica l'esercizio politico (il Vaticano non riconosceva lo Stato italiano), dunque bisognava non inimicarsi troppo i neri (i preti) e i rossi (i socialisti): meglio il compromesso. Da noi solo eventi traumatici o rivoluzionari inducono a interrompere l'andamento costante di governi compromissori. Così fu con la Grande Guerra e i successivi tumulti e l'avvento massiccio in Parlamento di socialisti, popolari e fascisti. Dopo il Ventennio del fascismo (che - scrive Mieli, allievo di De Felice - non è vero abbia rubato la vittoria alle elezioni del 1924, non fu a causa di violenze che gli italiani lo votarono), ecco che la presenza del Pci impone la non-alternanza. Ed è lo sconquasso mondiale che apre alla cosiddetta rivoluzione italiana, e al semi-maggioritario. Con il famoso slogan o-di-qua-o-di-là mandato a ramengo da ribaltoni, per cui alla fine, l'unico periodo dell'alternanza mai visto in Italia è stato quello 2001-2011. Adesso non se ne parlerà più per chissà quanti anni. Il problema è che noi siamo diventati maestri del mondo, e abbiamo esportato questo caos in tutto l'occidente, dove l'alternanza non esiste più da nessuna parte, e vincono grosse o piccole alleanze degli opposti, o le trasmutazioni per cui i socialisti diventano macroniani, ma anche no, e Trump è il capo dei repubblicani contro l'establishment repubblicano alleato a quello democratico. Anche questo, oltre alla moda e agli spaghetti, è il made in Italy di successo. FIGLI ILLEGITTIMI Questa la mia sintesi del libro, che ho privato della piacevolezza che sa versarvi Mieli. Il quale sostiene di essere di sinistra, e la sua vicenda esistenziale lo dimostra: da Potere operaio a Potere agnelliano, mantenendosi coerente se non con le bandiere con la sua intelligenza superlativa, capace di leggere tra le righe dei fatti, situandosi in anticipo là dove la storia andrà, evitando piaggerie e lacerazioni ipocrite della propria tunica di gran sacerdote del saper vivere. Insomma è il più intelligente di tutti. Gli devo molto. Se non ci fosse stato lui il giornalismo sarebbe già morto. Ha inventato il mielismo, prima alla Stampa e poi al Corriere della Sera. Gli hanno rimproverato di aver messo la minigonna a una vecchia e austera signora. Balle. Ha impedito che le corazzate dell'informazione cosiddetta indipendente finissero silurate dalla noia degli acquirenti. Non ha svilito affatto la politica e la cultura avvelenandole con il gossip, semmai ha dato peso alla curiosità in ambiti dove prevaleva il sussiego e la sudditanza. Senza il mielismo, non ci sarebbe stato il feltrismo, e mi scuserà se qualifico Libero come figlio un po' bastardo del suo Corriere: non lo riconoscerà mai, ma è il destino dei figli illegittimi, che di solito alla fine sputano sangue ma sono più felici. Mielista è anche il suo modo di fare storia. Unire levità e tragedia, inserendo nel menù degli eventi epocali il pigmento della curiosità e lo svolazzare di gonnelle, rende i suoi libri di storia e le sue trasmissione televisive (La Grande Storia su Rai Tre) un unicum. Diversi da quelli di Montanelli-Cervi (più Cervi che Montanelli) che hanno un fluire magnifico, didascalico e senza sorprese. Mieli trova cose nuove, gli servono a organizzare una sua idea della Storia, molto disincantata ma che è aperta alle sorprese. Avrete notato che non gli do dell'intellettuale, pur essendolo Mieli fino in fondo, perché oggi suona come un'offesa, viste le caratteristiche dei chierici del pensiero, tali da farli essere odiosi alla gente comune, che se ne sente disprezzata e li ricambia di uguale monetine in faccia. Mieli è parte della casta, anzi ne è la crème de la crème, ma come i migliori di ciascuna corporazione, non si lasciano rinchiudere nei suoi schemi, saltano fuori: si chiamano fuoriclasse. Giocano nella stessa squadra, frequentano le medesime pagine, gli identici salotti, ma hanno un altro tocco di palla, un'altra visione del gioco. Uno così è Giuliano Ferrara, che è della medesima generazione, e ha cellule grigie in quantità analoghe alle sue. Però Mieli non esibisce il suo acume tramite fuochi d'artificio atti a meravigliare per paradossi, ossimori, insomma non è uso ai voltafaccia e alle stravaganze colte tipiche del fondatore de Il Foglio. Due cime. Mieli è specialista in ponti levatoi e fa entrare il popolo nel castello. Ferrara parla ai principi. Uno, appunto, ha rifondato il Corriere, l'altro il Foglio. Diciamo che io preferisco Libero. E così voi, cari lettori. di Vittorio Feltri

Dai blog