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Negare la sepoltura a Priebkesignifica tradire la nostra civiltà

Dobbiamo accettare che si possa essere insieme mostri e uomini. E anche in quanto tali degni di esequie

Giuseppe Pollicelli
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La terribile e tuttora irrisolta vicenda delle esequie e della sepoltura di Erich Priebke, l'ex capitano delle SS che partecipò attivamente, il 24 marzo del 1944, all'eccidio delle Fosse Ardeatine, ci obbliga a volgere lo sguardo verso il nostro passato. Laddove l'aggettivo «nostro» va riferito a un «noi» che sottintende, se non il genere umano tutto, di certo l'intera civiltà occidentale. Se ciò avviene, se tutto quel che sta accadendo dopo la scomparsa di Priebke ci costringe a ripercorrere le tappe più significative della nostra storia di esseri senzienti e pensanti, è perché le decisioni da assumere intorno alla sorte delle spoglie mortali di Priebke chiamano in causa i temi ultimi e supremi dell'esistenza, quelli con cui l'umanità si misura da sempre.  C'è stato un tempo, lungo e neppure così lontano, in cui non in qualche landa remota ma in Europa, e addirittura a Roma, nel cuore della cristianità, alcune categorie di individui venivano sepolte in terra sconsacrata: gli assassini, le prostitute, perfino gli attori. Sono occorsi secoli perché si accantonasse quest'atroce consuetudine, che non contraddiceva solo il Vangelo ma valutazioni e princìpi che gli uomini, pur disapplicandoli, avevano già intuito ed elaborato molto prima del diffondersi della Buona Novella.  La pietas - Presso i romani, la Pietas era considerata una divinità, e fu il commediografo cartaginese Terenzio, vissuto nel II secolo avanti Cristo, a far dire a un suo personaggio «Homo sum, humani nihil a me alienum puto»: in quanto uomo, nulla di ciò che proviene dagli uomini posso ritenere a me estraneo. In luogo di queste vette della coscienza umana, la gran parte dell'opinione pubblica occidentale appare oggi desiderosa di rivalutare, trattando il caso di Priebke, l'arcaico istituto giuridico della damnatio memoriae: la completa cancellazione del ricordo di un individuo e di ogni traccia materiale da lui lasciata.  È il destino che, a parere di tanti, bisognerebbe riservare a Priebke, in quanto esecutore (peraltro mai pentito) e incarnazione vivente del male assoluto. Ma è questo il rapporto che conviene avere con il male? È così che va trattato? Provando (vanamente) a obliterarlo anziché sforzandoci di convivere con la sua angosciosa ombra?  Non sarà che, negando totalmente e arbitrariamente il dato dell'umanità a un uomo che è stato sì un mostro, ma restando pur sempre un uomo, siamo noi come specie (o quantomeno come Occidente) a scendere di grado, in qualche modo accostandoci al male e avvicinandoci al suo livello invece di allontanarcene e innalzarci su di esso?  La banalità del male - Abbiamo così paura di quella banalità del male (cioè di quel male che può essere enorme eppure appartenere a ogni uomo, tanto più se mediocre) di cui disse Hannah Arendt a proposito di un altro nazista, Adolf Eichmann, da non sopportare l'idea che si possa essere assieme - come purtroppo si è - mostri e uomini? E, in quanto uomini, al di là delle azioni commesse, anche le più abiette, meritevoli di un funerale e di una sepoltura?  L'assenza di un sepolcro, poi, dissuaderebbe forse gli scellerati che volessero omaggiarlo dal celebrare Priebke? Senz'altro no, semmai il contrario. Se non fossimo tuttora così spaventati dagli abissi di cui l'uomo è capace, considereremmo anzi la tomba di Priebke come un utile memento, come un monito costante e doloroso a non sprofondare di nuovo nel baratro del male. «Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo»: sta scritto nel campo di concentramento di Auschwitz. di Giuseppe Pollicelli

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