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Mughini: "Non toccate la mia pensione ricca per salvare gli esodati"

Far pagare il pasticcio a chi prende 3mila euro lordi al mese è una violenza ideologica. L'assegno adeguato ai soldi versati è un diritto sacrosanto

Giulio Bucchi
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di Giampiero Mughini Caro governo, cari ministri, cari addetti al gran debito pubblico italiano, c'è stato un momento - pochi giorni fa - in cui da cittadino di questo nostro doloroso Paese mi sono detto: «Ma è possibile che vogliano ancora rompermi i coglioni?».  Mi riferisco al momento in cui sui giornali è trapelata la notizia che, pur di parare il disastro provocato dall'oceano di “esodati” di cui non vi eravate accorti al momento di varare la riforma pensionistica, voi avevate messo nel conto di molestare fiscalmente le pensioni che arrivano all'inenarrabile cifra di 3.000 euro lordi mensili e oltre, ossia le pensioni di chi guadagna qualche spicciolo in più di 2.000 euro netti al mese o addirittura magari 3.000 euro netti, e anche qualcosa in più. Gente effettivamente che se la spassa dalla mattina alla sera, un continuum di ostriche in tavola, di sgualdrine ansimanti sotto le lenzuola, di viaggi esotici in prima classe, di vestiti griffati dalla testa ai piedi.  A questa tribù di gaudenti voi volevate togliere qualcosa, magari qualcosina, l'importante era togliere. Un po' lo facevate per necessità, molto per demagogia. Una dannata demagogia tutta italiana che minaccia un giorno sì e l'altro pure chi ha lavorato e meritato. Arrivo subito al punto. Il punto è che una pensione da tremila o quattromila o seimila euro lordi mensili non è un regalo che lo Stato ha elargito a gente raccomandata da una loggia massonica. È un reddito procrastinato che il pensionato si è pagato lira per lira, ricongiungimento per ricongiungimento, con l'eventuale riscatto della laurea, con l'eventuale versamento dei contributi previdenziali quando era disoccupato. Lira dopo lira, questo è il mio caso di pensionato che arriva a circa 6.000 euro lordi mensili. I cui relativi contributi avevo pagato tutti per più di trent'anni e senza mai godere di un qualche “scivolo” o “regalo” o sconto qualsiasi. Pagati tutti su uno stipendio che era elevato (non elevatissimo) dato che nel mio mestiere di giornalista in un giornale di punta non ero l'ultimo cretino del bigoncio. Pagati quando lavoravo le domeniche o le festività, i giorni in cui sono tantissimi gli italiani che vanno sulle spiagge ad abbronzarsi. Pagati all'Enpals quando andavo a chiacchierare in tv, e anche se quelli erano contributi che rendevano meno perché si trattava di una pensione supplementare. Una rapina da cui non potevo difendermi perché pagare i contributi Enpals è obbligatorio anche da parte di chi ha una sua pensione fondamentale.  Ecco come s'è venuta a formare quella cifra maestosa di 3.600 euro netti al mese su cui non vorrei che mi rompeste i coglioni, cari amici del governo. A me come ai tanti che stanno alla mia latitudine professionale. Ossia di gente che ha fatto bene per 30 o 40 anni un lavoro limpido su cui ha pagato tutti i balzelli che c'erano da pagare, e che dal quel lavoro ha ricavato un reddito procrastinato che si chiama pensione. Chiaro o no? Toglietevela dalla testa ogni idea alla maniera della Cgil, ossia che tutti coloro che in fatto di reddito sono poco oltre la paga media operaia siano dei gaudenti da tosare più di quanto vengano già tosati. Quello di cui sto parlando è un principio morale, o meglio un principio costituzionale. Sacro quanto la libertà di espressione o il «no» alla pena di morte. Il principio che non puoi togliere a nessuno, e a parte la ovvia e sacrosanta progressività del prelievo fiscale, quello che lui s'è guadagnato con il suo lavoro o con la qualità del suo lavoro. Il fisco deve essere progressivo, certo, e un contribuente onesto lo sa in queste settimane la pena che ti costa assolvere i doveri fiscali di una Paese stremato come l'Italia. Poi basta con le vessazioni, o con le rotture di coglioni e per dirla in greco antico. Basta. Chiaro, amici del governo? Buon lavoro a voi tutti.

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