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Per tappare i buchi delle Regioni aumentano il ticket

Nel nuovo Patto per la Salute stangata sulle prestazioni. Entro Natale ridotta la platea delle esenzioni e i redditi medi pagheranno di più

Matteo Legnani
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Con una dote monstre di 337 miliardi di euro in tre anni, il Patto della Salute appena siglato dal governo con le Regioni si profila come l'ultimo tentativo di correggere le storture di un sistema che dal 2001 al 2012 ha distribuito 512 miliardi di soldi pubblici per garantire servizi di assistenza all'altezza per tutti, ma pure per tappare le voragini create nei propri bilanci dalle Regioni incapaci di mettere un freno alle spese (Lazio, Campania, Molise in testa). Vista la mole di denaro pubblico in ballo, si capisce perché - almeno sulla carta - l'intesa siglata dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin abbia come stella polare quei fantomatici costi standard che da un quindicennio (il decreto Bassanini li configurava già nel lontano 2000, prevedendo - a torto - la loro entrata in vigore definitiva nel 2013) sono indicati come uno dei pilastri del tanto invocato federalismo fiscale e il rimedio alla perversione finanziaria per cui la garza non sterile costa 4,65 euro al chilo in Sicilia contro i 3,29 in Emilia Romagna o la medesima attrezzatura Tac 1.554 euro in Campania, rispetto ai 1.027 dell'Emilia Romagna. Ma al di là delle ottime intenzioni sulla carta, quello che rischiano nell'immediato i contribuenti-pazienti è la più classica delle stangate, sotto forma di aumento dei ticket. Le linee guida del Patto stabiliscono infatti che entro il 30 novembre una commissione ad hoc stabilisca le nuove regole di compartecipazione alla spesa per le prestazioni che «dovranno tenere conto del reddito delle famiglie», ma non ancora dell'indicatore Isee, che pure - fonte Agenzia delle Entrate - sarebbe più efficace per stanare i furbetti del fisco. In attesa di saperne di più, ci si può però rifare alle indicazioni emerse dall'indaginesulla sostenibilità economica del nostro Servizio sanitario conclusa il mese scorso dalle commissioni Bilancio e Affari sociali della Camera e che individuano nella riduzione delle esenzioni per i redditi medio-alti la via per “sgonfiare” i ticket più pesanti. Secondo questa linea, dato che le esenzioni per patologia non hanno un limite reddituale occorre fissare una franchigia (magari di qualche centinaia di euro) sotto la quale la prestazione è totalmente a carico del richiedente che ha un reddito capiente: solo dopo comparteciperebbe lo Stato. Per intenderci, le prestazioni poco impegnative - come gli esami di routine o interventi ambulatoriali - che ora sono gratis ( o quasi) per una platea molto estesa, potrebbero diventare a pagamento per i redditi medio-alti stabiliti in base alle precarie tabelle Irpef. Benvenuta perequazione, potrebbe dire qualcuno. Se non fosse che l'evasore seriale - quello che “scippa” i servizi comunali come asili e bonus bebè truffando sul reddito Irpef - continuerebbe a godere dei benefici indisturbato. Questo scenario, molto più hard rispetto al testo del Patto appena varato, non è però escluso da quest'ultimo: basta leggere l'indicazione per cui «la revisione avviene a par ità di gettito per ogni regione (cioè non aumentano entrate da ticket)» e immaginare che la parità delle entrate nelle casse dello Stato si otterrà facendo pagare di più chi prima non pagava o pagava meno. L'ennesima sberla fiscale ai danni del ceto medio che potrebbe essere evitata sanando le disfunzioni e gli sperperi di denaro inanellate negli anni da gran parte delle Regioni del Sud. Come? Un metodo lo identifica l'assessore leghista all'Economia di Regione Lombardia (uno dei modelli di efficienza sanitaria a livello europeo e mondiale) Massimo Garavaglia, impegnato proprio ieri con il riparto delle risorse del Sistema Sanitario: «La stortura non sta nella quantità di risorse del fondo nazionale per la Sanità, che per fortuna sono state incrementate con il Patto triennale - dice -, ma nella loro origine: oltre a quasi la metà di tutto il gettito Iva c'è l'Irap. Ecco, se si riuscisse a tenere sui territori almeno quest'ultima imposta, si eliminerebbero le sperequazioni e penalizzerebbero gli alti tassi di evasione». Una strada che, sempre secondo Garavaglia, il governo Renzi non è intenzionato a seguire perché «invece di favorire una vera evoluzione in senso federale della fiscalità, è impantanato in un rigurgito di centralismo per cui vuole accentrare a sé tutte le competenze». di Edoardo Cavadini

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