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Quel tesoriere onesto della destra d'antan che odiava il Palazzo

Lucia Esposito
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La raccontò Gianfranco Fini, quasi si trattasse di una barzelletta. Anni fa, quando generali e colonnelli della destra italiana ancora erano uniti, della casa di Montecarlo nessuno ovviamente parlava e il patrimonio del partito era oscuro ai più. Anni felici della destra, anche elettoralmente parlando.  Era venuta a mancare la madre. Lui telefonò all'obitorio: «Sono Lamorte, volevo sapere se è arrivata una bara…». E dall'altro capo del filo sbottarono: «Ahò, ma nun c'hai un c… da fa' oggi? E lassame lavorà». Per chiunque quel cognome lì sarebbe stato una croce, se non una lapide. Lui, Donato Lamorte, il gentiluomo della destra, il fedelissimo di Giorgio Almirante e di Gianfranco Fini, memoria storica del Movimento sociale italiano, ci scherzava su. Una volta sui suoi manifesti fece scrivere: «Lamorte vi aspetta nei locali di via Alessandria alle ore 17». Memorabili le sue apparizioni alla Camera dei deputati. Aveva l'abitudine di presentarsi con qualche minuto di ritardo. Quatto quatto arrivava e annunciava la sua presenza ai colleghi: «Attento, c'è Lamorte alle tue spalle».  La morte se l'è preso ieri, dopo una lunga battaglia con la malattia. Aveva 83 anni, quasi tutti vissuti con la destra e per la destra, da fascista non fascista, attivista non attivista, deputato al quale non era mai piaciuto fare il deputato. Era l'uomo dell'organizzazione, Lamorte, dei colloqui, dei suggerimenti. L'uomo che aveva le chiavi della cassaforte del partito e, forse anche per questo, le chiavi del cuore dei leader di destra. Ha detto Assunta Almirante: «Aveva la fiducia di Giorgio, fiducia cieca. Non vi era cittadino su tutto il territorio nazionale che, chiedendo la tessera del Movimento sociale, foss'anche un alto generale delle Forze Armate, non passasse, prima della sottoscrizione, sotto il setaccio della rete dei collaboratori di Donato, efficientissimi e sempre ben informati». Sapeva tutto di tutto, Donato Lamorte. E non parlava di nessuno. Mai un nome che sia uscito dalla sua bocca, come si conviene a chi ha avuto a che fare con un patrimonio di quattrocento milioni di euro in immobili e ottanta milioni di euro cash, compresa quella casa di Montecarlo che fu della contessa Colleoni, passò ad An perché la nobildonna, così disse la Colleoni, voleva contribuire alla causa della destra italiana e finì nella disponibilità del cognato di Gianfranco Fini, quel Giancarlo Tulliani che in comune con la destra aveva forse solo la sorella Elisabetta. Mai una parola. «Chiedete a Francesco Pontone. - diceva - Era lui il tesoriere quando fu venduta. I poteri ce li aveva lui». Francesco Pontone, però, sapeva e non sapeva. L'onestissimo uomo dei soldi e dei misteri, del silenzio e della fedeltà. Appunto. L'uomo che, tacendo, una volta salvò dall'espulsione quello che sarebbe poi diventato il suo capo. Fine degli Anni Settanta. Almirante era stato categorico: tutti quelli che avevano aderito a Lotta Popolare, movimento di fronda all'Msi, dovevano essere espulsi. Tra chi aveva aderito c'era Gianfranco Fini. Donato Lamorte disse no, Gianfranco non c'entra nulla. E Fini si salvò. Anni dopo, quando Gianfranco si sedette alla scrivania di Almirante, trovò un foglietto che parlava di lui. Poche righe scritte da Donato Lamorte nelle quali si negava l'appartenenza di Fini a Lotta Popolare. Mai un nome, mai una circostanza, mai una rivelazione. La casa di Montecarlo? Non so. Il patrimonio di An? Poca roba, messa su negli anni, con grande fatica. Possibile, tutti quei palazzi, quasi mezzo miliardo di euro in immobili? Fra tutti i partiti italiani, Alleanza Nazionale aveva - presumiamo abbia tuttora - uno dei patrimoni immobiliari più cospicui. «C'è stato un periodo - spiegò Lamorte - in cui a noi fascisti nessuno voleva affittare appartamenti dove mettere le nostre sezioni. E così ci tassavamo e ce li compravamo». Un centinaio di appartamenti in tutta Italia, la sede romana nella centralissima via della Scrofa, il palazzo di via Mancini a Milano. E i soldi liquidi. Solo uno come Lamorte poteva stare al centro del tesoro e non approfittarsene. Mai un nome e mai una lira per sé. Ha raccontato Antonio Pannullo sul Secolo d'Italia in un articolo bello e sentito (e utile, visto che alcune delle informazioni sono tratte dal suo scritto): «Le cariche, i pennacchi e le medaglie non lo hanno mai interessato, lui voleva stare in Federazione e lavorare affinché tutto funzionasse. In un ambiente dove molti avevano come obiettivo quello di raggiungere i palazzi del potere, ieri come oggi, Donato preferiva rimanere dov'era, per mettere a punto i meccanismi che regolavano non solo il partito ma anche i rapporti istituzionali e non con gli altri partiti e la cosiddetta società reale. Solo nel 2001, a settant'anni, Fini lo convinse a candidarsi alla Camera, dove fu eletto per tre legislature di seguito». Lamorte accettò, ma solo perché glielo aveva chiesto il capo. In cuor suo rimaneva sempre l'organizzatore, il capo della segreteria politica, il ragazzo che nel 1949 entrò nella sezione del Prenestino, zona rossa di Roma, zona popolare, che per una vita gli è rimasta dentro. Il rapporto con gli iscritti, i camerati, gli ex combattenti della Repubblica Sociale, le feste, le gite a Predappio,la federazione, il Msi che cambia pelle, An, il Popolo della Libertà, i giorni nostri, Futuro e Libertà. E ieri Donato Lamorte se n'è andato, in silenzio, da gran signore quale era, mai contaminato dalle beghe di partito, mai interessato a qualcosa che non fosse il suo partito, che non fossero i suoi ragazzi e i suoi capi. Se ne va il fedelissimo. Onore al fedelissimo. Sabato, alle ore 16, i funerali nella basilica di San Giovanni Bosco, a Cinecittà, Roma. Camera ardente fino ad oggi alle ore 11,30 in via della Scrofa. «Per me era come un padre», ha detto Gianfranco Fini. Per tutti quelli dell'ex An, per il vecchio Msi, per tutte le mille destre italiane era come un padre, burbero e affettuoso, ironico e serio. Silenzioso. Chissà, forse ieri se n'è andata definitivamente anche la destra che fu. Mattias Mainiero

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