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Pd, 50 senatori contro Matteo Renzi

Lucia Esposito
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I voti della sopravvivenza ballano tra i cinque e i sei. È questo il margine, ristrettissimo, su cui può contare a Palazzo Madama la maggioranza di governo. Quello su cui Matteo Renzi può far affidamento per far approvare la riforma del mercato del lavoro. Numeri assai ridotti e che ben conosce chi ha passato l'estate al Senato, a difendere la riforma costituzionale. Ovvio che, a guardare le battagliere dichiarazioni degli esponenti della minoranza, qualche preoccupazione, tra i fedelissimi del premier, c'è. A Palazzo Madama si calcola che «l'area grigia», quella che altre volte è venuta in soccorso della maggioranza, targata Gal, è fatta di 5 o 6 voti. Il problema è che questa volta i voti da compensare sono, almeno sulla carta, molti di più dei 16 dissidenti di Corradino Mineo e Vannino Chiti. I senatori della minoranza sono quasi una cinquantina sui 108 senatori del Pd. Insomma se Renzi non trova un accordo con la minoranza, potrebbero mancare una quarantina di voti. E per far venire meno la maggioranza ne bastano 5. Né si può contare sul soccorso di Forza Italia. Proprio Cesare Damiano, ieri, ha avvertito che se la riforma dovesse passare coi voti decisivi di Fi, ci sarebbero «conseguenze politiche» per il governo. Senza contare che, quando anche il Jobs act passasse le forche caudine del Senato, approderebbe alla Camera dei Deputati. E qui i problemi sarebbero in commissione. In particolare nell'undicesima, quella dedicata al Lavoro, presieduta, tanto per cominciare, da Cesare Damiano, ex segretario cigiellino. Dei 21 componenti, 10 vengono dalla Cgil e uno dalla Uil (Antonio Boccuzzi). E per Sel c'è Giorgio Airaudo, già segretario Fiom. Logico che le posizioni della Cgil peseranno eccome. Non a caso ieri è sceso in campo uno come Luca Lotti, l'uomo di sicuro più vicino a Renzi, e che, normalmente, si guarda bene dall'entrare nella mischia delle dichiarazioni quotidiane. «Il segretario del Pd è stato scelto con le primarie sulla base di un programma chiaro. Qualcun altro ha perso le primarie e ora non solo pensa di dettare la linea ma lo fa prima ancora che si svolga una discussione nei luoghi preposti, come è la direzione del partito». Da una parte e dall'altra, in realtà tutti sanno che a un qualche accordo bisogna arrivare. Ieri sera si sono riuniti i senatori di minoranza del Pd. Oggi si riuniranno tutte le minoranze, le truppe di Bersani, Cuperlo, Civati. Mentre questa mattina il ministro Giuliano Poletti incontrerà i senatori del Pd. Un segnale considerato positivo, a Palazzo Chigi, è stato l'annuncio, da parte del senatore bersaniano Miguel Gotor, di tre emendamenti, nessuno dei quali sull'articolo 18. «Se vogliono questo, a noi va benissimo», si commenta. In realtà si sa che le richieste non finiranno qui. Ma è chiaro che la partita, più che tecnica, è politica. «Ogni volta che mi paragonano alla Thatcher mi fanno un piacere perché conquisto voti nuovi», va dicendo Renzi in privato. Per questo, almeno per ora, terrà il punto. Così come per Bersani & co quella sull'articolo 18 è una battaglia per dimostrare che il Pd non è «il partito di Renzi». Che c'è una sinistra e conta. Intanto ieri un assist importante al premier è arrivato dal presidente della Repubblica. Parlando alla cerimonia di inaugurazione dell'anno scolastico, Giorgio Napolitano ha detto che «l'Italia non può restare prigioniera di corporativismi e conservatorismi». Servono «politiche nuove e coraggiose per la crescita e l'occupazione». Non ha nominato il Jobs act, ma il riferimento è chiaro. Intanto dagli Usa, dove rimarrà tutta la settimana, Renzi ha detto di aver consapevolezza che le «cose vanno cambiate in modo quasi violento, ci vuole un cambio radicale su tutto. Facendo arrabbiare qualcuno, facciamo andare avanti tutti». Non si fermerà, anche a costo di scontentare «i sindacati o la minoranza di un partito». Perché l'Italia «ha bisogno di una rivoluzione sistematica». Su p.a., politica, lavoro, giustizia. «Faremo di tutto per cambiare l'Italia». Elisa Calessi @elisacalessi

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