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Giancarlo Giorgetti: "Se vinciamo il referendum conquistiamo l'Italia"

Matteo Legnani
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«Una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo a chi finalizza il gioco» canta Luciano Ligabue. Giancarlo Giorgetti si rivede nel ruolo di mediano, perché «io sono per il gioco di squadra, cerco di essere utile ma non spintono per apparire, ho sempre pensato che altri meglio di me potevano rappresentare la Lega in tv o sui giornali». Però, restando alla canzone di Ligabue, per l' onorevole lombardo di «bruciarsi presto perché quando hai dato troppo devi andare e fare posto» non se ne parla neppure. Dato ha dato, ma lui si reputa un «mediano alla Pirlo, che tiene insieme i fili», quindi un cervello, e alquanto longevo. E in effetti, è entrato in Parlamento neanche trentenne cinque legislature fa, nel 1996, come bimbo prodigio della squadra di Bossi, al quale è stato sempre molto vicino, e non solo perché originario e sindaco di Cazzago Brabbia, comune varesino a uno sputo dalla casa di Gemonio del Senatur. C' è chi dice sia il braccio destro di Salvini, insinuiamo noi, ma Giorgetti non ci casca: «È vero che ho una visione organicistica del partito, che per me è come un corpo umano, ogni cosa è importante e deve stare al suo posto, ma non direi il braccio destro. Salvini sente tantissime persone, certo non posso negare che ritenga utile avere un contraddittorio con me». E non gli contesta mai le felpe e i toni troppo forti? Lei è sempre in giacca e cravatta e controllato... «Certo che ci confrontiamo ma Matteo ha il talento del colpo a effetto, il messaggio deve essere forte per rompere il muro di gomma e arrivare diretto alla gente. All' inizio sembra sempre che la spari grossa, poi il tempo gli dà ragione. Pensi agli immigrati e alle Ong, Salvini diceva un anno fa che alcune erano in combutta con i trafficanti di uomini e gli davano del razzista, oggi lo sostengono il governo e perfino la Chiesa ma chissà come mai c' è chi continua a dargli del razzista». Comunque i toni forti sembrano pagare, stando ai sondaggi. «Sì, anche perché la Lega è da anni partito di governo, e direi di ottimo governo se pensiamo alle Regioni, e ha un' immagine più tranquillizzante del suo leader. Lui picchia, noi poi leniamo il dolore». Lei che tra i leghisti è quello che è stato più vicino sia a Bossi che a Salvini saprebbe dire qual è la differenza principale tra i due? «Umberto è un giocatore di scacchi, ragiona sul lungo periodo. Matteo è concentrato sul medio termine e quindi ha una capacità di consenso superiore, ha un impatto immediato. Quando parlava Bossi, la gente non capiva, pensi alla battaglia per Milosevic e la Serbia baluardi della cristianità e dell' Occidente. Ci sono arrivati tutti anni dopo». L' ha perdonata, l' Umberto? «Con lui sono sempre stato sincero e conservo ottimi rapporti. Certo, magari ogni tanto qualcuno gli va a dire delle cose non vere». Com' è cambiata la Lega? «Ai tempi di Umberto era organizzata come un esercito, con un profondo senso gerarchico e molte regole, scritte e non scritte. È questo radicamento che le ha consentito di resistere quando c' è stata la stagione delle scope e tutti pensavano che scomparisse, travolta dai guai di Bossi. Oggi c' è sempre un capo unico e assoluto ma le regole contano meno anche se, proprio perché meno imbrigliato dalla gerarchia, Salvini come figura è perfino più importante di quanto lo era Bossi, perché tutto dipende da quello che dice e fa Matteo». Per un organizzatore come lei questo va bene? «Desidererei che fosse ripristinata un po' di gerarchia». Perché il rapporto di Salvini con Berlusconi è così difficile? «Pura differenza generazionale, vedono il mondo in modo diverso e parlano linguaggi diversi. Matteo ha più successo con i giovani». Non è che di Bossi il Cavaliere si fidava di più? «Ma guardi che Bossi al Berluskaiser, perché lo chiamava così, gliene ha combinate di tutti i colori. Certo è vero che lo scenario è cambiato, allora la Lega era molto più piccola di Forza Italia». Questione solo di leadership? «In politica contano i numeri. Saranno loro a determinare le leadership. A condizioni invariate, se non arriva qualche ordine dall' alto di non chiamare più Matteo in tv, a primavera 2018 avremo più voti noi». Dagli ambienti azzurri rimbalzano i nomi di Maroni e Zaia come possibili premier: possibile? «Sono provocazioni per mettere zizzania. Le candidature vere non si sbandierano gettando ai quattro venti dei nomi senza neppure informare gli interessati. E poi Maroni e Zaia sono impegnati sui referendum per l' autonomia delle loro Regioni, che fino al 22 ottobre per la Lega è la battaglia più importante». Cosa cambia se vince il Sì? «Lombardi e veneti si troverebbero molti più soldi per le loro esigenze e per migliorare la loro vita. E poi ci sarebbe una spinta popolare a cui un governo raccogliticcio non si potrà opporre, quindi si cambierà l' articolo 116 della Costituzione e si inizierà un percorso di federalismo alla spagnola». I referendum non sono in contraddizione con la vocazione nazionale che si è data la Lega e con il tentativo di penetrare al Sud, che non sta avendo successo? «Ammetto che aumentare i consensi al Sud si sta rivelando faticoso ma i referendum possono essere un grimaldello. Sanciscono il principio di autodeterminazione dei popoli, che vale per tutti, anche per i popoli del Sud, che con il federalismo avrebbero le opportunità che il centralismo ha negato loro». Se leverete la parola Nord dal simbolo, come lo spiegherete allo zoccolo duro? «È una possibilità, non ancora una decisione. Il mondo cambia e anche i partiti devono evolversi, senza rinnegarsi. Se riusciamo a far diventare autonome Lombardia e Veneto avremmo fatto per queste regioni molto di più che tenere il nome Nord nel simbolo». Alla fine l' alleanza del centrodestra per le Politiche si farà? «Sì ma non avrà i contenuti e le modalità di un tempo. Ciascuno peserà per quello che vale, non ci sarà un listone unico per arrivare al 40%. Fare un listone per vincere a ogni costo significherebbe includere anche Alfano e noi vogliamo evitare che i voti leghisti contribuiscano a eleggere personaggi che poi vanno a sostenere governi di sinistra come è successo in questa legislatura. Non vogliamo vincere nell' urna per poi perdere al governo». Non siete troppo ossessionati da Alfano, in fondo in Lombardia e Liguria ci governate insieme? «In Liguria Alfano praticamente non esiste. Quanto alla Lombardia, noi avevamo stretto il patto con i suoi uomini prima che lasciasse Forza Italia per sostenere Renzi e, per rispetto degli elettori, abbiamo mantenuto l' alleanza di governo che era stata votata e aveva vinto. Il problema è sempre quello: il rispetto degli elettori, che non sopportano più chi tradisce il mandato per una poltrona. In Sicilia vedremo se Forza Italia l' ha capito o se scenderà a compromessi con chi ha tradito. Alfano farebbe bene ad accordarsi con la sinistra a Palermo, visto che già ci governa a Roma». Cosa accadrà dopo il voto? «È assai probabile che nessuno vinca, e quindi gli alfieri del politicamente corretto europeo cercheranno di fare una grande coalizione. Era già tutto pronto, solo che il risultato delle Amministrative, con il tracollo del Pd e la vittoria del centrodestra in generale ha scombinato i piani di tutti, Berlusconi compreso». Ritiene che adesso il leader di Forza Italia non abbia più alcuna tentazione di allearsi con il Pd? «Certo che ha ancora la tentazione, perché lui ha interesse ad andare al governo a qualsiasi condizione. Solo che, da attento osservatore dei sondaggi qual è, ha capito che i suoi elettori, dopo sei anni di governi disastrosi di sinistra, vogliono l' alleanza con la Lega per un centrodestra unito e vincente. Noi l' avevamo capito da un pezzo: gli elettori di Forza Italia sono più vicini a noi che a Renzi e al Pd. A Silvio voglio lanciare un messaggio: se vuoi vincere, non devi aver paura di perdere». Al di là delle intenzioni e delle convenienze, ci sono i presupposti di programma per un' alleanza di centrodestra? «L' importante è stringere un patto preelettorale sulle questioni fondamentali e mi sembra che nel tempo le posizioni della Lega siano diventate patrimonio comune di tutto il centrodestra. Sull' immigrazione non cediamo di un millimetro e Forza Italia ci sta inseguendo. In economia, dall' aliquota fiscale unica, che sarebbe uno choc in grado di far tornare al Paese la voglia di fare impresa, agli investimenti pubblici mirati e non distribuiti a pioggia per avere consenso, la pensiamo in modo simile». Sull' Europa però non dialogate: siete disposti a cedere sull' euro per un centrodestra unito? «Abbiamo posizioni forti e sappiamo di non poter cambiare l' Europa da soli. Per noi è importante avviare il mutamento, anche Berlusconi è d' accordo, anche se dal Ppe lo strattonano e lui ogni tanto cede». Però le posizioni sovraniste in Italia non sono e non saranno mai maggioritarie.  «Questo è da vedere. L' importante è che chi vota sia informato, invece il grande capitale e i suoi maggiordomi nel mondo tendono a descrivere i sovranisti come quelli che portano il disastro. La verità è che noi vogliamo semplicemente difendere gli interessi degli italiani in Europa, cosa che finora non è mai stata fatta perché la sinistra è così ideologicamente europeista che preferisce fare gli interessi altrui piuttosto che i nostri. Di conseguenza, da vent' anni ci prendiamo tutte le diseconomie. L' incompetenza di chi abbiamo mandato in Europa ci ha precluso ogni ruolo da protagonisti, anche perché i pochi che ci capivano qualcosa sono stati fatti fuori». La Ue è il fallimento di Renzi? «Il fallimento di Renzi è stato il referendum. Si è circondato di adulatori che l' hanno annebbiato convincendolo che avrebbe avuto un plebiscito. E poi in economia ha buttato 70-80 miliardi in bonus e misure non strutturali. Ha perso una congiuntura favorevole, con il quantitative easing di Draghi, i tassi bassi e le materie prime ai minimi. Quando a breve risaliranno i tassi non so se il sistema Italia reggerà». Secondo lei è finito? «È finito il renzismo, non lui, che ha il merito di aver salvato la sinistra, la quale altrimenti sarebbe ai margini del dibattito politico. Solo che adesso, nel disperato tentativo di rincorrere il voto moderato e berlusconiano, che non conquisterà mai, sta perdendo i suoi elettori». Perché invece Grillo, pur governando male, non finisce? «Perché in tanti pensano che gli altri hanno fatto di peggio». di Pietro Senaldi

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