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Roberto Maroni: "Cosa cambia se vince il Sì al referendum". Il governatore spiega a "Libero" la Lombardia autonoma

Andrea Tempestini
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Il governatore è rientrato dalle vacanze prima di tutti quest'anno. Il 16 agosto Roberto Maroni, dal 2013 presidente della Regione Lombardia, era già a Pontida, poi subito nell'ufficio all'ultimo piano del nuovo Pirellone. «Inizia un periodo movimentato, come tanti nella mia vita, ma anche uno tra i più esaltanti. Save the date, segnati la data, il 22 ottobre la Lombardia vota per la propria autonomia, è la battaglia politicamente più importante per la Lombardia, quella che può realizzare il sogno federalista della Lega e cambiare per sempre l'Italia. E poi in primavera, la corsa per la rielezione a governatore», probabilmente in concomitanza con le Politiche. Milano, Venezia e Roma, i tavoli da gioco della Lega, territorio e governo, due partite interconnesse ma che il Carroccio giocherà con protagonisti diversi: su un fronte i governatori, motori dell'autonomia, che è anche un po' personale, sull'altro il leader Salvini e il partito. La posta è alta ma sarà per il carattere, sarà perché ne ha viste molte, il “pres.”, come lo chiamano i suoi, non pare per nulla nervoso. «Non siamo mica nel 1995» sdrammatizza, «quando tutti volevano cacciarmi dalla Lega, ufficialmente perché ero contrario a uscire dal governo Berlusconi, in realtà perché ero il numero due del partito ed ero ingombrante, facevo invidia a tanti; se non ci fosse stato Bossi a salvarmi, a 40 anni sarei stato finito». Come andò, se lo ricorda? «Avevo la base leghista contro, a un comizio mi tirarono addosso un vaso di fiori che schivai per miracolo. In consiglio federale chiesero la mia espulsione. Bossi fece parlare tutti e poi intervenne: “Non rompete i coglioni, al Bobo ci pensò io”. Mi spedì in missione esplorativa al Sud per studiare la fattibilità di una Lega Italia federale, fu una sorta di espiazione». Chi voleva cacciarla oggi è sparito: lei è l'ultimo rimasto al potere della primissima generazione della Lega, una sorta di Highlander: come c'è riuscito? «Il fattore “c” è stato indispensabile, poi forse ho qualche capacità e infine la mia abilità tattica. Io e Bossi eravamo una coppia perfetta, lui stratega io tattico, come in barca a vela: lui tracciava la linea e poi mi diceva “pensaci tu”, e io mi muovevo in base alle onde e ai venti, cercando di capire cosa si dovesse fare per non uscire sconfitti. Sono stato un buon ministro ma per restare a galla nei momenti più bui è stato fondamentale il mio rapporto personale con Bossi: chiunque altro avesse fatto quello che ho fatto io nel '95 sarebbe stato cacciato per indegnità dal partito». E perché Bossi non la cacciò? «Mi riconosceva di essere un leninista della Lega, uno per cui l'interesse del partito viene prima di ogni proprio interesse e di ogni cosa». Ma chi glielo fece fare nel '95 di rischiare la ghirba? «Secondo me le cose si cambiano o facendo le riforme o facendo la rivoluzione. Eravamo al governo per la prima volta, volevo tentare con le riforme». E 22 anni dopo sempre dalle riforme e dal governo riparte, con il referendum per l'autonomia. L'ultimo sondaggio dice che i Sì sono al 94%: dobbiamo crederci? «La sfida è portare i cittadini al voto, visto che è un referendum consultivo, e l'asticella del successo è fissata al 51%. Una volta che l'elettore è in cabina, se vota No significa che è proprio un autolesionista. D'altronde, quelli del No non ci sono, perché non ci sono argomenti contro. Lei li vede?». Quelli del No dicono che il referendum è inutile perché è consultivo… «La politica è fatta anche di messaggi e il referendum è un'occasione unica per chi vuol far capire che le cose così come sono non vanno bene. Un successo al referendum avrebbe un valore straordinario, perché mi permetterebbe di scendere a Roma e chiedere di trattenere in regione i soldi delle tasse: la Lombardia ha un residuo fiscale di 53 miliardi, significa che ogni settimana regala un miliardo di tasse allo Stato senza avere ritorni. Mi basta che me ne lascino la metà per fare la rivoluzione: più competenze e più risorse». Ma la ascolteranno? «Io vinco il referendum, e se poi alle prossime elezioni vince il centrodestra, come fanno a non ascoltarmi?». I segreti della campagna elettorale? «Comunicazione semplice, non voglio replicare il pasticcio di Renzi del 4 dicembre, che fece un calderone mischiando cose importanti a dettagli e la gente non capì più nulla. Data, il 22, e contenuto, Lombardia autonoma, questi sono i messaggi. Ora sto cercando qualche testimonial importante che mi aiuti a veicolarli». Mi illustri come sarà la Lombardia autonoma? «Sarà una regione a statuto speciale, esattamente come la Sicilia, così nessuno potrà dire che il modello è incostituzionale. Lo statuto siciliano è federalismo allo stato puro, è il più avanzato d'Italia, anche se è inattuato, ed è questa la vera colpa della classe politica siciliana. Come presidente, potrò gestire l'ordine pubblico e le forze dell'ordine e avrò competenza diretta sulla sicurezza, fondamentale per combattere l'emergenza immigrazione, dal degrado in stazione ai centri d'accoglienza allo sgombero delle case popolari occupate. In pratica, si supera anche la battaglia lanciata da Salvini per l'abolizione dei prefetti. Poi, come il presidente siciliano, che però non lo fa mai, potrò partecipare con diritto di voto a tutti i consigli dei ministri in cui si trattano argomenti attinenti alla mia regione: in pratica, la Lombardia avrà un ministro fisso a prescindere da chi governi e non dovrà venire a conoscenza dai giornali delle decisioni che la riguardano. E poi c'è la partita economica: se anche solo trattengo 30 miliardi di residuo fiscale, mi si raddoppia il bilancio della regione e posso fare investimenti in infrastrutture - materiali come strade e treni, e immateriali come la banda larga - sanità e servizi d'assistenza per anziani e disabili». La accusano di egoismo… «Invece no, primo perché il referendum è il grimaldello per avere un Paese federalista, secondo perché conviene cambiare soprattutto alle Regioni assistite, che sono le più povere e quelle dove si vive peggio, terzo perché la Lombardia autonoma farà bene a tutti, non lo dico io ma una serie di autorevoli studi». Com'è possibile, mi scusi, se leva allo Stato centrale 30 miliardi? «La Lombardia è la locomotiva del Paese, se aiuti lei, aiuti tutta Italia. È un'affermazione del principio di responsabilità: chi governa bene, viene premiato, questo è il significato vero del referendum. Lei sa che, secondo Confcommercio, se tutte le Regioni gestissero la Sanità come la Lombardia lo Stato risparmierebbe 23 miliardi? Le sembra egoismo? Con la Lombardia autonoma, tutti avrebbero la spinta a spendere meglio, non meno. Quanto alla solidarietà, sono pronto a fare un fondo per sostenere lo sviluppo delle altre regioni, ma con investimenti che controllo e stabilisco io, finanziando iniziative che servono, non la spesa corrente per assumere i forestali o mantenere i 30mila dipendenti pubblici siciliani, quando io in Lombardia con il doppio degli abitanti ne ho solo tremila. Posso anche creare zone franche come Livigno, in Campania e Puglia, ma decido io dove vanno le risorse». Mi dia qualche flash: le prime scelte per la Lombardia autonoma? «Zone economiche speciali ai confini con la Svizzera con sgravi fiscali alle imprese che investono lì per consentire loro di fare concorrenza alla Svizzera. La Lombardia ha 50mila frontalieri, tutte risorse che perdiamo. Il 45% del territorio regionale è montuoso: voglio che chi vive in montagna possa fare imprenditoria a casa sua, perciò devo portare infrastrutture, strade e banda ultralarga. Sondrio e Milano sono collegate solo da una provinciale. Pedemontana e basta con i treni a binario unico della Bassa, a Cremona e Mantova. Infine il sociale: con l'età aumenta la cronicità delle malattie e la cura per i nostri anziani passa dall'ospedale all'assisterli in casa, come visitarli a domicilio, portare loro la spesa…». Si è dimenticato di Milano, la capitale? «Mi piacerebbe discuterne con un sindaco nostro. Milano ha undici università, quasi tutte d'eccellenza, per me deve diventare un polo di ricerca mondiale, specie nella sanità e nella tecnologia. Investiremo per attrarre cervelli nel settore scienze della vita, in primis genomica e oncologia e per creare un parco tecnologico sul modello Silicon Valley». Con Lombardia e Veneto autonomi, la Lega si potrà permettere anche di levare la parola Nord dal simbolo? «Le ho detto, sono un leninista, per cui per me Salvini, che in questo momento è il segretario, ha ragione anche quando ha torto. Però, siccome non devo fare carriera né assecondare ambizioni personali, se non sono d'accordo con lui mi prendo il lusso di dirglielo, e con questa storia del Nord via dal simbolo gliel'ho detto». Perché non è d'accordo? «La penso come Bossi: se togli il riferimento territoriale, perdi forza e voti. Il Nord è dentro di noi, è il nostro dna, un patrimonio da non sperperare: la Lega nasce per interpretare la specialità del Nord rispetto al Sud e con in mezzo Roma ladrona, superando il vecchio schema ideologico destra-sinistra». Salvini medita di levare la parola Nord perché vuole fare della Lega un partito nazionale… «Lo so, ma così non diventerà mai una forza egemone. C'è un modo per tenere la parola Nord ed essere lo stesso un partito nazionale: io nel 2012 cambiai lo statuto della Lega e la trasformai da partito federalista a confederazione. La Lega non può essere un partito unico nazionale, la base si è abituata agli strappi ma togliere il brand è un errore. Se vuoi espanderti in tutta Italia, devi creare tante forze confederate, come non puoi fare un listone unico del centrodestra, non puoi neppure fare un listone della Lega, perché altrimenti con un unico partito finisci con il dire al Nord cose che sono in contraddizione con il Sud e non ti credono più. Salvini usi gli strumenti che gli ho dato nell'articolo 1 dello Statuto. D'altronde la politica al Sud ha in molte zone motivazioni e leve troppo diverse che al Nord. Perfino il Pd è di fatto un partito macroregionale, e anche Berlusconi è riuscito solo in parte a fare un partito nazionale». Berlusconi con l'idea di Forza Italia e dei partitini ha in mente quello che ha in mente lei per la Lega? «Berlusconi è una volpe e ha capito che non conviene creare meccanismi rigidi. Se vuoi diventare egemone, devi includere ma non annettere. L'idea di confederazione è nostra, non facciamocela fregare da Berlusconi». Il progetto di togliere la parola Nord dal simbolo però mi sembra molto avanti: la sua non è una battaglia contro i mulini a vento? «Il guaio non è che il progetto è avanti, il guaio è che non se ne parli. Io ho chiesto più volte a Salvini di radunare periodicamente i vertici della Lega per confrontarsi. Bossi non aveva vicesegretari federali ma riuniva spesso la segreteria, era un modo per scambiarsi opinioni e idee. Io da segretario lo facevo tutti i lunedì. Quando leggo su Libero che un onorevole di lungo corso e vicinissimo a Salvini come Giancarlo Giorgetti sostiene di auspicare il ritorno di una maggiore gerarchia dentro la Lega come ai tempi di Bossi, salto sulla sedia. Significa che è un'esigenza diffusa». Immagino che in privato avrà detto queste cose a Salvini? «Sì. Lui è un leader di popolo e va benissimo così, ma mi spiace se trascura il partito». Nostalgia dei vecchi tempi? «Io non parlo per me. L'altra sera ero alla festa della Lega di Pontida, dove casualmente ho indossato una maglietta con la scritta “Prima il Nord”, ed è stata un'ovazione. Sui tavoli dominava uno striscione con la scritta “Futuro è indipendenza” e quando, a sorpresa, è apparso Bossi, la gente lo chiamava ancora “capo”. Non sono segnali di rivolta ma è il sentimento dei leghisti e Salvini dovrebbe tenerne conto. Bisogna aver presente la storia, sapere quali sono le cose essenziali». Altrimenti? «Si rischia l'identità e, quindi, molti consensi. Per noi nati con la Lega, se la Lega non è più quella, non è più il nostro partito, e io non voglio che succeda, io ho avuto tanto dal Carroccio, non mi metterei mai di traverso, ma se non è più il nostro partito, poi ognuno farà la sua scelta». Vede un suo futuro altrove? «Assolutamente no. Se avessi voluto andarmene, l'avrei fatto nel '95, Berlusconi mi riteneva troppo comunista, infatti nel 2001 pose un veto sulla mia candidatura a ministro della Giustizia, alla quale tenevo molto, ma mi avrebbe preso al volo». E oggi, pare che Berlusconi non la vedrebbe male come premier. «Sì, lo so, me l'hanno detto. Ma nel 2013 ho fatto una scelta di vita: dedicarmi alla mia terra, infatti non mi ricandidai in Parlamento, per dare un segnale. È una scelta irrevocabile, con Roma ho chiuso, a prescindere dalle convenienze personali». E con Berlusconi? «Vado a trovarlo ma solo per amicizia. Ogni volta la mia premessa è: “Sono qui perché ti voglio bene, non ti chiedo nulla”. Così passiamo un paio d'ore in relax, cazzeggiando». Ma si è convinto che non deve più broccolare Renzi? «Assolutamente no. Lui è pragmatico a 360 gradi, anzi di più, a 365 come disse una volta Erminio Boso. Si tiene aperte sempre tutte le possibilità, è il segreto del suo successo, ha sempre fatto tutto e il contrario di tutto. Sono sicuro che lui i suoi emissari con Renzi e quel mondo li conserva tutti e li tiene ben allenati». Come vede il futuro del centrodestra? «Un centrodestra senza listone ma unito può vincere. Lo dicono i sondaggi ma soprattutto lo sento nell'aria. Molto dipenderà dalla legge elettorale: con il proporzionale ognuno andrà per sé e poi si faranno i conti, con un premio di coalizione, cosa che io auspico, la strada per Palazzo Chigi è spianata». Ma in questa coalizione Alfano dove sta? «Fuori, a sinistra, come adesso. Il veto è ad personam e non sarà tolto. Diverso è per altri di Alleanza Popolare. In Sicilia Alfano si gioca la battaglia della vita: se farà vincere il Pd, Renzi lo contraccambierà. È chiaro però che se il 5 novembre in Sicilia, come penso, Alfano sosterrà il Pd, qui in Lombardia i suoi lo molleranno e ci sarà la scissione: Parisi li sta già tirando dentro tutti». Certo che i programmi di Lega e Forza Italia sono sempre più simili, sarebbe un peccato che le strade non si incrociassero per questioni siciliane o altro… «Noi la nostra parte la stiamo facendo. Sull'immigrazione, dal 1996 seguiamo la linea Bossi, magistralmente interpretata da Salvini, e abbiamo convinto i forzisti, su pensioni, tasse e aliquota unica fiscale l'intesa c'è. Ora sull'Europa Salvini ha detto che la Lega è disponibile a dare a Bruxelles un'ultima chance: è un segnale importante, più di così cosa dobbiamo fare? Io credo che per le elezioni avremo un programma comune, con linee guida piuttosto chiare». Quindi è reale il cambio di linea della Lega su Ue e moneta unica? «Salvini ha dei pasdaran anti-Ue che lascia andare a briglia sciolta ma io sono convinto che al momento di siglare l'alleanza di governo l'Europa sarà l'ultimo dei problemi». Ma quindi non siete più sovranisti? «Le risponderò quando avrò capito cosa vuol dire sovranismo. Per me la sovranità appartiene al popolo e in questo senso basta essere democratici per essere sovranisti. Se invece il sovranismo significa nazionalismo e quindi centralismo, da buon leghista dico “no grazie”. Per il resto credo che il sovranismo sia una definizione in cerca d'autore, si cerca un termine nuovo ora che la Le Pen ha dichiarato morto il lepenismo». Chi sono i maroniani nella Lega? «L'unico maroniano che conosco sono io. Se invece vuol sapere chi mi piace, le dico che faccio il tifo per Giorgetti, anche se lo vorrei più decisionista. E poi Nicola Molteni, che sarebbe un ottimo ministro della Giustizia, e Gianni Fava, che vedrei all'Agricoltura, Zaia e Sonia Viale, che è stata mio sottosegretario all'Interno, è una leghista vera e potrebbe ricoprire ogni ruolo». Cosa succede se alle Politiche non vincerà nessuno? «Si ritorna al 2013, governo Letta, tutti dentro con Lega, Fratelli d'Italia e Cinquestelle all'opposizione... Una sorta di riedizione della Prima Repubblica». E con Minniti premier? «Gli esprimo solidarietà perché so cosa significa fare certe cose in solitudine. Lo vedo come un salmone che deve risalire la corrente evitando pescatori e orsi, peraltro tutti del suo partito, che vede le iniziative del ministro dell'Interno come una minaccia. Minniti sta facendo cose giuste, con difficoltà, ma non so se sarà sufficiente. Io gli feci due proposte risolutive: caschi blu in Libia per gestire campi profughi e centri d'accoglienza dove selezionare chi è migrante economico e chi è profugo e di portare in Africa non i sindaci ma le Regioni, che hanno soldi e possono fare investimenti. Aspetto le sue risposte». Ma non lei ha risposto alla mia domanda… «Credo che Minniti abbia troppa personalità per fare il premier, è un muscolare e nel medio periodo stufa. Questi sono i tempi di figure come Gentiloni, come Mattarella, apprezzato perché non si vede e non ha toni urlati. Comunque, chiunque sarà, al prossimo premier per sopravvivere serviranno relazioni internazionali di altissimo livello, altrimenti l'Europa e gli apparati internazionali ti massacrano, come hanno fatto con Renzi quando hanno iniziato a considerarlo un Pierino». Questo significa che Salvini per lei non può fare il premier? «È un punto interrogativo, inizi a lavorarci, è un europarlamentare e può non essere così difficile, qualche relazione internazionale importante già ce l'ha. Al suo posto io spariglierei. Incontri Macron, chi è più sovranista e anti-Ue e anti-immigrati di lui? Non mi sembra che abbia fatto cose di sinistra o europeiste, malgrado le premesse». di Pietro Senaldi @PSenaldi

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