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Paolo Cirino Pomicino: "Matteo Renzi? Gli dissi che si stava buttando via, e lui..."

Andrea Tempestini
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Precettore dell'accordo - alcuni indulgerebbero alla parola intrigo -, un'esistenza sopra le righe di uno spartito democristiano, pittoresco e tagliente, una distintiva “mobilità facciale” su cui Giuliano Ferrara pose l'accento, uomo di feste cinematografiche da lui sbrigativamente negate - «Mai fatte, a casa mia portavo i sindacati a siglare accordi», disse - Paolo Cirino Pomicino, pochi giorni fa, era spettatore più che interessato alla presentazione di Noi con l'Italia. La quarta gamba del centrodestra: «Abbiamo lavorato un anno a questa ricomposizione», rivendica il ruolo politico. Come già accaduto in passato, i suoi “cattolici democratici” si trovano alleati con la Lega (senza più Nord), questa volta di Matteo Salvini, uno assai poco democristiano e molto duro con quelli - non tutti - che ha bollato come i “riciclati” del nuovo scudocrociato. Due volte ministro, andreottiano, sei legislature e per anni solerte “viceré” di Napoli, Pomicino usa una voce un poco più grave, le parole ben scandite, per sottolineare che «non abbiamo più la bussola da 25 anni», guarda caso dalla fine della vecchia Dc. In questo smarrimento, però, riconosce a Berlusconi le stellette del leader: «La sua forza è la capacità di unire: tema importante in un Paese dove da un quarto di secolo tutti sono contro tutti. Ha virtù quasi democratico cristiane, combina sensibilità differenti». Quando gli chiedi se può reggere un'alleanza tra Silvio e Matteo, anime divergenti, evoca «i fondamentali della politica», li evocherà più volte, che «seppur in verità smarriti da tempo» possono permettere all'intesa di tenere: «Certo che può reggere». Riformulo lo domanda: la convivenza politica tra Berlusconi e Bossi è stata una realtà per diverse legislature. Le chiedo: quella tra Berlusconi e Salvini è realizzabile? «È possibile. Prenda l'alleanza tra De Mita e Craxi negli anni '80: nonostante le profonde differenze ha resistito. Le faccio questo riferimento non per nostalgia, ma per insistere sui fondamentali della politica, che non devono mai essere dimenticati. Forze diverse possono raggiungere un accordo su un programma che duri il tempo di una legislatura. Questo non esaurisce le visioni di un signolo partito nel medio-lungo periodo, sulle quali ognuno farà offensiva di persuasione». Ma i fondamentali della politica oggi paiono meno strutturati: comprende i miei dubbi… «Le posso dire che la Lega è divisiva. Lo è sempre stata, come se la cosa fosse impiantata nel loro dna. Speravo che l'eliminazione della parola Nord la trasformasse in partito nazionale, ma così non è stato». Mi par di capire che lei, dopo il voto, ritenga probabile un governo di centrodestra. «Nessuno esercita l'arte della preveggenza, ci si basa sui sondaggi: questi senza dubbio suggeriscono una vittoria del centrodestra, che con la presenza della nuova lista dei democratici cristiani e liberali potrebbe raggiungere il 40%». Ha molto fiducia nel ritorno dello scudocrociato? «Certo: i democratici cristiani, forse, sono ancora oggi maggioranza in Parlamento. Franceschini e Rosato nel Pd, Carra in Liberi e Uguali, la Gelmini, ex quadro diccì, in Forza Italia. Sono ovunque. Se si riunissero sarebbero di nuovo primo partito e, nell'interesse del Paese, avvierebbero una ricomposizione della sinistra. Spero di campare fino a quando questa mia visione si realizzi». Che effetto le fa vedere Paola Ferrari, Claudio Lotito e Massimo Ferrero in una lista col simbolo Dc? «Lotito non è un giovanotto e da sempre è democratico e cristiano. Il presidente della Sampdoria ha la benemerenza di aver recentemente fatto vincere una squadra del Sud che in Serie A non vince quasi mai (il Benevento, ndr). Queste sono personalità della società civile, come si usa dire, possono tranquillamente essere presenti in un partito come il nostro. Anche nella vecchia Dc e nel vecchio Pci c'erano personaggi che non erano scripto iure né democristiani né comunisti». Di Casini che corre col Pd, che ne pensa? «Se ci sta Franceschini nel Pd non ci può stare anche lui (ride, ndr)? Il Pd oggi più che mai è guidato da democristiani. Oltre a Renzi, i cinque in prima linea - Rosato, Zanda, Franceschini, Guerini e Delrio - sono tutti diccì vissuti nelle istituzioni come tali. Ciò significa che il Pd, iscritto al Partito socialista europeo, non ha un'identità, a maggior ragione dopo l'uscita di una parte rilevante degli eredi del vecchio Pci». A proposito di strappi: Maroni ha accusato di “stalinismo” Salvini. Che idea si è fatto del passo indietro in Lombardia? «Che all'interno della Lega ci sia un fiume carsico di diffidenza e contrasto tra Salvini e Maroni è noto da tempo. Una sorta di nuovo scontro tra leninisti e stalinisti, come cento anni fa. L'ambiguità e la non spiegazione dell'amico Maroni sulla sua rinuncia lasciano oggettivamente comprendere che vuole tornare nel governo nazionale». Formalmente lui lo smentisce. «No, lo dice lui stesso: quando afferma di non voler correre per ragioni personali ma aggiunge che “so come si governa”…capisce, si sono smarriti i fondamentali della politica ma non dell'italiano». Potrebbe rivelarsi un azzardo: senza una maggioranza chiara, cosa accadrà dopo il voto? «Si dovrà dare al Paese un governo possibile: ricordo come la Dc, in un momento difficile per il Paese tra crisi economica e terrorismo brigatista che ammazzava, fece un'alleanza per tre anni col Pci ancora legato a Brèžnev. Sarebbe però un errore andare a nuove elezioni: come insegna la Spagna, il risultato in sei mesi non cambia». Lei evoca i comunisti di fine anni '80, Berlusconi invece quelli del '94: sostiene che il M5s sia più pericoloso di loro. Condivide? «Indubbiamente sì. I comunisti del '94, già privati del muro di Berlino, erano un partito autoritario contagiato per 40 anni dalla democrazia parlamentare del centrosinistra. Tutt'altro il M5s: se fossi Berlusconi diffonderei il loro statuto, ricordando come ogni partito si organizza sul modello che vuole trasferire nelle istituzioni. Lo statuto del M5s obbliga i parlamentari ad eseguire i dettami del leader, prevede multe per il dissenso fino all'espulsione, delega la gestione etica unicamente al garante. È uno statuto stalinista: leggerlo significa capirne fino in fondo la ratio autoritaria». Eppure sono proprio i post comunisti di Liberi e Uguali a cercare più di tutti l'alleanza col M5s. «La cosa mi colpisce. Bersani e Speranza sono persone democratiche, ma ammiccano: non comprendo come non riescano ad afferrare l'essenza del M5s». Interpreto il suo pensiero: Di Maio a Palazzo Chigi sarebbe una sciagura? «Può andarci giusto per una passeggiata». Ritiene plausibile l'ipotesi di un'alleanza post-elettorale tra Salvini e il M5s? «Sarebbero i fuochi d'artificio, ma quelli di Napoli che durano soltanto pochi minuti». Quali saranno i temi decisivi della campagna elettorale? «L'Europa e la lotta contro il capitalismo finanziario». Più o meno Europa? «Diversa. Deve emergere una visione europea nel suo complesso. Il punto di rottura è il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo: sarebbe utile che il legislatore primario diventasse davvero il Parlamento. Questa situazione ha determinato gravi storture, la più sciagurata delle quali è il bail-in: una legge così stupida da impedire allo stato membro l'intervento sul capitale di una banca, se non quando è fallita. Una legge che per il salvataggio fa entrare in gioco fondi sovrani, l'Oriente del pianeta e stati autoritari». Renzi. Farebbe meglio a non correre come premier? «Tutt'altro, deve farlo: è stato votato da 2 milioni di persone in quell'anomala liturgia che sono le primarie. Deve guidare la campagna elettorale. Poi, che possa diventare premier non è all'ordine del giorno». Se lo aspettava un declino così rapido del renzismo? «Ne scrissi su L'Unità nel maggio 2015. La politica è una scienza esatta: a un determinato comportamento consegue un preciso avvenimento. Quando si ritiene che un partito che raccoglie milioni di persone possa essere guidato da una sola persona si commette un errore che prima o poi ti travolgerà. Ebbi anche il piacere di dire al diretto interessato che stava sciupando il suo talento. Mi proposi di spiegargliene le ragioni». Cosa le rispose? «Mi ringraziò e mi disse che ci saremmo sentiti. Poi, naturalmente tra il dire e il fare… Sul fatto che Renzi sia un talento non vi è dubbio, e quando i talenti si sciupano il Paese si impoverisce. Per questo mi permisi di segnalarlo a lui in persona. Ma naturalmente io ho il privilegio di non essere ascoltato». di Andrea Tempestini @anTempestini

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