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Aldo Moro e le Brigate Rosse, la verità 40 anni dopo. Cosa diceva Cossiga: "La colpa di tutto fu di Berlinguer e Pci"

Giulio Bucchi
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Quaranta anni fa, come oggi, veniva sequestrato Aldo Moro e sterminata la sua scorta in via Mario Fani a Roma. Da quel giorno del 1978, quando si evocano questi fatti, inevitabile ecco sentir pronunciare il nome di Francesco Cossiga. Di solito per associarlo a dei sospetti. L'ultimo a farlo, in ordine di tempo, è stato Giovanni Moro, figlio minore dello statista. In una intervista a Repubblica rilancia l'accusa: «Perché lo Stato non fece nulla per salvarlo?... Andreotti era il capo del governo, il responsabile politico ... E Cossiga? In qualsiasi paese, un ministro dell'Interno a cui fosse capitata una disgrazia del genere, sarebbe finito a coltivare rose... lui invece divenne due volte presidente del Consiglio e una volta capo dello Stato». Ho potuto ascoltare (e registrare) per ore - nel luglio del 2008 - il presidente emerito della Repubblica esprimersi su quelle vicende e sul peso che si è portato dietro. Era amico intimo dello statista poi assassinato il 9 maggio. Ho trascritto le parti essenziali della sua testimonianza nel libro Cossiga mi ha detto (Marsilio). Una cosa mi colpisce. La domanda che allora si pose con me Cossiga, ed era la prima volta, a proposito delle ripetute accuse contro di lui e Andreotti dei Moro, è stata: «Perché hanno sempre accusato noi due, e mai Enrico Berlinguer ed il Pci, che in nessun modo si adoperarono per salvare Aldo?». Qui, credo possa essere utile trascrivere alcune pagine da quelle "confessioni", certificate da registrazioni già messe a disposizione della magistratura. Dice Cossiga: Lo scorso 4 luglio 2008, la festa dell' Indipendenza, mentre all'ambasciata americana partecipavo al ricevimento, era verso sera, una ragazza mi si avvicina. «Senatore Cossiga». Non sapevo chi fosse, non la conoscevo, forse un tratto del volto però, qualcosa di familiare e amico «Sono la nipote di Aldo ed Eleonora Moro, sono la figlia di Agnese». Se ne andò subito via. Mi ricordo qualcosa, un sorriso, non so, devo averle dato la mano, non ricordo bene. Dopo trent' anni dalla morte di Aldo Moro è la prima volta che qualcuno della sua famiglia si rivolge a me parlandomi, chiamandomi per nome. L' ho sentito come una carezza dall' aldilà. Forse Aldo comincia a capirmi. Io ero e sono diverso da lui. Molto più piccolo di lui. Profetizzò che per molto tempo avrei patito di quella mia scelta. Ha ragione, e ne soffro ancora, è la mia croce. Ma ho imparato a distinguere tra rimorso psicologico e rimorso morale. Quello morale non l' ho. () La coscienza mi ha imposto quelle scelte. E io le ritengo tuttora giuste. Lui vede, sa. Avevamo una diversa concezione dello Stato. Per me era essenziale, per lui alla fine lo Stato non esisteva. Esistono gli uomini, lo Stato no. LE LETTERE Le sue lettere - l' ho capito dopo - sono oneste e coraggiose, non ha cambiato idea per salvarsi la vita. Rispecchiano perfettamente la sua concezione della Democrazia cristiana. Non è mai stato liberale, Aldo Moro. Lo ricordo da vivo. Non mi ha abbracciato in alcuna occasione per tutto il tempo in cui sono stato a lui vicino. Andreotti una volta, per sbaglio, lo fece. Aldo Moro mai. Eppure mi ha voluto bene. Per questo so che mai ha pensato a un mio calcolo, a una cattiveria. Ha addebitato tutto a una mia concezione dello Stato che lui riteneva sbagliata e che mi avrebbe certo fatto correggere solo se avesse potuto parlarmi a quattr' occhi. Non ha pensato mai un istante che fossi sleale o gli mancassi d' affetto, ma attribuì la mia scelta alla fragilità. A qualcosa che non c' entrava né con la ragione né con i sentimenti, bensì con il mio essere prigioniero di Andreotti, ma soprattutto di Berlinguer. Mi fermo un attimo e lo vedo. È prigioniero, in condizioni di cattività. Ha davanti a sé sin dal primo momento la prospettiva dell' ultima ora per mano violenta. Eppure egli ha una tale indipendenza di coscienza, come uno Spartaco che ha le catene ai piedi ma la testa libera, da vedere in me un povero suo figlio traviato non moralmente ma da un altro tipo di prigionia, più sottile e più forte. IL WHISKY Ci chiamavamo per nome, mi faceva sedere e mi offriva whisky. Uno dei ricordi che mi torna spesso alla mente è di lui nel suo studio privato di via Savoia a Roma. Io che entro, è tarda sera, mi siedo, e mi domanda: «Francesco cosa posso offrirti?». Rispondo: «Aldo, un dito di whisky». E lui costernato: «Francesco, mi spiace, non ce l' ho». Il giorno dopo senza che lo chiedessi mi porse contento il bicchiere. Mi raccontò poi il suo fido collaboratore Nicola Rana che la mattina stessa era arrivato con un involto di giornali, e c' era, avvoltolata dentro, la bottiglia. Svolse i fogli e disse: «Tenetela per Francesco, è per lui». Non credetti all' autenticità delle sue lettere, lui non credette all' autenticità delle mie disposizioni, non si capacitava potessi pensare in piena coscienza che le lettere non fossero davvero sue. Ora lui sa che le mie convinzioni erano autentiche e io che le sue lo furono altrettanto. Ci divideva proprio il giudizio sulle cose. La gerarchia delle cose importanti. () GLI ASSASSINI Sono sempre stato considerato da tutti i Moro, per ogni istante di questi trent' anni dal 9 maggio 1978, come l' assassino del loro marito, padre, nonno. L' ho condannato a morte, è vero. L' ho fatto in piena coscienza. Le mie convinzioni, di me cattolico liberale, che crede nello Stato e nelle ragioni dello Stato per il bene comune, hanno prevalso. L' ho condannato a morte, insieme con Andreotti, Zaccagnini e Berlinguer. Io non sono l' assassino però! Lo furono le Brigate Rosse. Devo dirla questa banale verità. Ci si dimentica sempre di questo: che gli assassini sono i brigatisti. E che tra coloro che hanno deciso la condanna a morte c' è, e in una posizione decisiva, di intransigenza estrema, Enrico Berlinguer con il suo Partito comunista. Perché gli assassini di Moro,secondo i suoi familiari, siamo io, Zaccagnini e Andreotti? Perché essi non hanno mai detto una parola contro i comunisti? Hai mai sentito uno della famiglia Moro dire che la linea della fermezza era voluta innanzitutto da Berlinguer e dai suoi? La mia risposta è: perché i comunisti fanno ancora paura. Perché facciano ancora paura non me lo spiego. Oppure hanno questa magia per cui qualunque cosa facciano non sono giudicabili, quasi fossero superuomini. Nel suo ultimo libro, quel matto di Giovanni Moro indica queste persone come gli assassini del padre: Paolo VI, Andreotti, io e Zaccagnini. Ancora una volta Berlinguer lo lascia fuori. Nessuno della famiglia l' ha mai lontanamente indicato anche solo come appena appena responsabile. O i comunisti sanno su di loro cose per cui li minacciano oppure la realtà è metafisica e fanno paura in sé. Se non ci sono altri pasticci che non so, basterebbe leggessero in mia compagnia, una sera, quanto ha scritto di me Aldo. Nel verbale del processo cui è stato sottoposto dalle Br, Aldo mi dedica un capitolo. È la risposta a un interrogatorio. () «Di derivazione sarda e imparentato con Berlinguer, ha la sua base elettorale e psicologica in Sardegna, dove spesso vivono i familiari. Conosce naturalmente a Roma ai più alti livelli, ma non è, come Andreotti, un romano e non ne ha oltretutto la mentalità. Se dovessi esporre con una certa riservatezza il mio pensiero, direi che in questa vicenda mi è parso fuori di posto, come ipnotizzato. Da chi? Da Berlinguer o da Andreotti? Se posso avanzare una ipotesi, era ipnotizzato da Berlinguer piuttosto che da Andreotti con il quale lega a prezzo di qualche difficoltà ()». LO SCAMBIO Supponeva fossi plagiato, di più, "ipnotizzato" da Enrico Berlinguer. Me lo lasciò intendere anche in una lettera scrittami tra il 5 e l' 8 aprile dal carcere delle Brigate Rosse. C' è questa frase: «Se mai potessi parlarti, ti spiegherei meglio e ti persuaderei. Ti chiedo di avere fiducia». Non l' ho avuta, questa fiducia in lui. In quel momento ero ancora convinto fosse non lui ma un altro a scrivere con la sua testa e le sue mani. Ma non mi avrebbe convinto egualmente. Quando ripenso a quella frase, aggiungo sempre «Francesco». E sento la sua voce. «Se mai potessi parlarti, Francesco». Ma non mi avrebbe convinto. Sullo scambio di prigionieri in quel momento no. Lo Stato si sarebbe liquefatto moralmente. Sarebbe finito il compromesso storico per mano delle Brigate Rosse, ottenendo così la loro massima vittoria. di Renato Farina

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