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Al Reem Al Tenaiji, la principessa araba che vuole fermare l'immigrazione

Andrea Tempestini
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Arriva. Sorride. Porge la mano. Il tempo per un breve saluto e torna ai suoi impegni. Sua Altezza Al Reem Al Tenaiji, principessa degli Emirati Arabi Uniti, è a Milano per un intervento al Dreamers Day. Ha trovato lo spazio in agenda per un'intervista di mezz'ora, ma la giornata è stata piena e ha accumulato un'ora di ritardo. Cambio di programma: prima del suo arrivo uno dei suoi quattro assistenti consegna le risposte scritte alle domande che erano state mandate in anticipo via mail alla Principessa. La gentilezza e la disponibilità di chi lavora con lei traspaiono sin dalla prima comunicazione. Tutto nell'interesse della Principessa e dei suoi fini filantropici. Nulla è lasciato al caso. Persino la richiesta di non utilizzare le parole di Sua Altezza per scopi politici. Cortese. Ma senza ammettere repliche. Del resto è ben più interessante approfondire altri aspetti. All'Hotel Bulgari, tra Montenapoleone e Brera, è tutto un via vai di turisti stranieri e parvenu nostrani. La principessa Al Reem Al Tenaiji si distingue nell'eleganza del suo tailleur e dei lunghi capelli sciolti sulle spalle. Sua Altezza è amministratore delegato della Fondazione Awakening, creata per «supportare le comunità e le persone che hanno bisogno in tutto il mondo». IL CAMBIAMENTO L'obiettivo è attivare un «cambiamento fornendo educazione, infrastrutture, assistenza sanitaria e impiego» e la fondazione è attiva in Sud America, Africa e Asia con lo scopo di non fare semplice beneficenza, ma di fornire aiuto perché le comunità si rafforzino e migliorino le proprie condizioni in autonomia. «Il nostro supporto non è legato ad aspetti religiosi e culturali», precisa la Principessa. «Forniamo gli strumenti e le risorse per far sorgere piccole attività, da risciò a macchine per cucire, da piccole cucine accessoriate a bestiame. Ma ci concentriamo anche sull'organizzazione di seminari e attività di formazione per imparare a gestire queste piccole attività, dal marketing al servizio al cliente alle norme di igiene da rispettare». Tutto viene svolto e realizzato con l'utilizzo di risorse locali, a differenza di quello che fanno molte altre organizzazioni internazionali. «Noi crediamo sia meglio rafforzare le comunità dando impiego a persone del luogo», spiega Sua Altezza. «Non abbiamo uffici sparsi in giro per il mondo con staff straniero. Lavoro con persone che la pensano come me e hanno la stessa passione per fare la differenza. Non lo vedono solo come un impiego, ma come una responsabilità e un impegno personale per il cambiamento. Siamo una squadra e ci vedo in un certo senso come amici e come una famiglia più che come un gruppo di lavoro o dei colleghi». Per capire di cosa abbia bisogno ogni comunità, viene svolto in anticipo un lavoro di “ascolto e discussione” per poi individuare "possibili soluzioni e partner locali per realizzarle». È un modo di procedere che richiede «molto tempo per costruire la relazione sulla base della fiducia reciproca». Tra i tanti progetti realizzati ci sono la costruzione di cinque classi e dei materiali per 700 studenti nella regione indiana dell'Uttar Pradesh e la realizzazione di un sistema di acqua calda corrente per più di 2.500 bambini, insegnanti e bidelli per nove scuole del Talas, una regione rurale del Kyrgyzstan. Ma la fondazione della Principessa opera anche in Madagascar, dove si è occupata di fornire risciò e tuk-tuk per più di 200 autisti locali così da favorire l'impiego. Ci sono poi i progetti ancora in fase di sviluppo, come quello in favore di alcune donne indiane, alle quali saranno assegnate delle mucche e dei vitelli così che possano portare avanti una attività e sostenere le proprie famiglie. Una delle sfide più grandi, spiega la Principessa, è «identificare una squadra locale adatta per entrare in reale contatto con la comunità: ho dovuto ritardare molti progetti e cambiare le nostre strategie e solo ora dopo molti anni abbiamo capito che non possiamo portare un cambiamento se le stesse comunità non sono pronte per riceverlo. Per questo oggi il nostro primo messaggio è “vi ascoltiamo”». Uno dei tanti obiettivi di questo lavoro è «migliorare le condizioni locali delle comunità così che non abbiano più la necessità di migrare». Anche se le migrazioni sono un aspetto che prosegue da migliaia di anni, Sua Altezza è consapevole che è necessario anche un lavoro di presa di consapevolezza su una questione tanto rilevante nei paesi già sviluppati, che in un certo senso subiscono le ondate migratorie. È interessante un gesto della Principessa Al Reem Al Tenaiji. Quando arriva, è lei a porgere la mano. Non è un vezzo da nobile, ma una questione di rispetto per una religione nella quale la donna, spesso (mal)intesa come sottomessa, ha il diritto di decidere se e a chi concedere una stretta di mano. LA RELIGIONE «Credo che il dibattito sul velo e sulla condizione della donna nell'Islam sia piuttosto piatto e banale a causa di una percezione miope», conferma. «E se devo essere franca, non sono stati fatti grandi sforzi da nessuna delle due parti per cambiare questo modo di vedere. Se l'Islam è vissuto quasi come uno Stato e non come una religione professata da un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo, credo che questo stesso aspetto provochi diverse idee sbagliate. E una religione come l'Islam non può essere definita in base all'abbigliamento femminile». Per spiegarlo fa l'esempio del suo Paese, gli Emirati Arabi Uniti, dove le donne hanno ruoli di leadership significativi e importanti e lo Stato dà la libertà alle donne di contribuire alla società con il ruolo che ciascuna sceglie per sé». Naturalmente non è così in tutto il mondo, ma la Principessa ritiene che le cose possano cambiare e «il ritmo di questo cambiamento è determinato dalle condizioni locali, dalla comprensione e dai bisogni e per portare il cambiamento è fondamentale essere persistenti: l'educazione è il catalizzatore di cambiamento nel XXI secolo». di Alvise Losi

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