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Luciano Moggi racconta Gianni Agnelli: "Quando stavano per operarlo e gli ho sbattuto il telefono in faccia"

Andrea Tempestini
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Chi ha avuto la fortuna di conoscere la famiglia Agnelli, non può che commuoversi vedendo il documentario sulla storia dell'Avvocato appena uscito su Netflix. È quanto successo a chi vi scrive, perché mi sono sempre sentito baciato dalla fortuna per aver conosciuto questo grande uomo durante il periodo di gestione della Juve che lui considerava una sua creatura, al pari della Fiat. Essergli stato vicino, potersi confrontare con lui, che era considerato un maestro di vita, ti dava quelle certezze che solo persone con grande carisma sanno trasmettere. Leggi anche: "Quando mi chiamò a casa sua, e...": Moggi, altra bomba su Agnelli Quelle immagini, quei luoghi per lungo tempo frequentati, le stesse persone apparse nel filmato, mi hanno riportato ai dodici anni passati in bianconero e non provo vergogna a dire di non essere riuscito a trattenere qualche lacrima. Due uomini immensamente grandi, sia lui che il fratello, il dottor Umberto. In ogni sua manifestazione, l'Avvocato era puro carisma: le sue parole non suonavano mai come un ordine ma erano suadenti come se lo fossero, avere l'onore e anche il piacere di colloquiare con un simile personaggio dava la carica e il coraggio per affrontare le stranezze che la vita riserva in ogni momento. Nei suoi colloqui non esisteva mai il verbo “devi”, al suo posto c'era sempre «Che ne dice?». E l'interlocutore capiva che qualcosa doveva cambiare. Proteggeva come pochi i propri dipendenti: al tempo di Tangentopoli dissuase con poche parole quanti inveivano e chiedevano il licenziamento per alcuni personaggi Fiat coinvolti nello scandalo: «Difenderò i miei uomini fino all'ultimo grado di giudizio». Comportamento da uomo vero, sconosciuto ai più, specialmente di questi tempi. Il mio ingresso alla Juve assieme al dottor Giraudo e Bettega avvenne nel 1994, la squadra era reduce da otto anni di insuccessi tanto che l'Avvocato decise di passare la mano dando l'incombenza al fratello Umberto. Vincemmo subito il campionato, due anni dopo la Champions. L'ambiente prima depresso tornò a sognare e l'Avvocato tornò a divertirsi. Tra me e lui nacque subito un ottimo feeling, mi chiamava tutte le mattine alle sei, spesso per darmi le notizie stampa di cui era già a conoscenza nonostante l'ora altre volte per chiedermi se c'erano novità. Era un uomo allegro e diceva di colloquiare volentieri con me perché io lo ero altrettanto. E la cosa mi riempiva di gioia immensa. LA CHIAMATA DAGLI USA Nei primi tempi in bianconero potevano sorgere anche delle incomprensioni fra noi a causa della mia poca conoscenza dell'ambiente, ma l'Avvocato, da gran signore quale era, ha sempre capito la buona fede. Come quando, andato a New York per un intervento chirurgico, mi fece chiamare più volte dal centralino della Fiat : «È Casa Agnelli, l'Avvocato vorrebbe parlare con lei». Io, pensando che fosse un amico di Cuneo che lo sapeva imitare alla perfezione, non risposi mai, addirittura riattaccando il telefono, perché pensavo che Agnelli, essendo in America, non avesse tempo di pensare a me. E mi sbagliavo. Quando tornò in Italia, parlando con il fratello Umberto, si limitò a dirgli: «Però che strano tipo quel Moggi, gli ho telefonato più volte e lui mi ha sempre riattaccato». Chiarito l'equivoco, grandi risate e avanti con il lavoro. D'altra parte il motto di famiglia era «fino a quando il lavoro diverte la fatica non si sente» e noi stavamo interpretando la massima alla perfezione. Il giorno del chiarimento fu un piacere immenso, pari però al dolore provato qualche giorno prima della sua dipartita, quando chiamò me e Lippi a casa sua. Parlammo per un'ora , argomento Juve e, nel congedarci, usò poche parole che ci lasciarono però di pietra: «Chissà se potrò rivedervi». Non le potrò mai dimenticare. Gli successe Umberto, grande manager, uomo di numeri, colui che ci aveva assunto alla Juve con la consapevolezza di aver formato un gruppo dirigente di tutto rispetto. I risultati gli dettero ragione perché proprio quei dirigenti portarono la Signora sul tetto del mondo battendo a Tokyo il River Plate, per la felicità sua e di Donna Allegra, la moglie super-tifosa del dottor Umberto. Mi chiamava “il comandante” ed io ero onorato della sua stima. Purtroppo la malattia del secolo lo portò via ancora in giovane età, una perdita tremenda per la Juve e per la claudicante Fiat del tempo, che lui stava cercando di rimettere in piedi. Stavamo tornando da Milano dopo aver fatto il contratto con il nuovo allenatore Fabio Capello,erano le 22 circa, Giraudo alla guida mi chiese di chiamare il dottore per dargli la notizia: ci risposero che era morto. Da quel momento un silenzio assordante ci accompagnò nella corsa sfrenata verso la sua villa alla Mandria, ci accolse il figlio Andrea e abbracciandoci non ci restò che piangere. L'EREDE ANDREA Racconta Donna Allegra che alle 17 di quello stesso giorno, aiutandolo a fare il bagno, chiese a Umberto chi fosse il nuovo allenatore della Juve e lui, facendo il gesto di chi non vuol parlare (una mano sulla bocca) gli disse: «Non posso... altrimenti Moggi si incavola». Con Lui finiva l'attività della Triade alla Juve: altre persone ne vollero prendere il posto. Adesso suo figlio Andrea ne sta emulando le gesta: con il suo avvento alla presidenza la Juve ha ripreso a vincere, sei scudetti consecutivi fino ad oggi, quasi a far pensare che padre e zio dal cielo lo proteggano da quanti, malpensanti e poco propensi al lavoro, ne vorrebbero la caduta. Magari anche per ridare alla Juve tutto quello che le è stato tolto ingiustamente oltre a penalizzare chi ne ha approfittato. di Luciano Moggi

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