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Fabrizio Frizzi, il ricordo di Gianluigi Paragone: "Piaceva perché era uno di noi"

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Giovanni Ruggiero
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Non ho episodi da raccontare su Fabrizio Frizzi. Non lo conoscevo. Di solito quando un personaggio se ne va si ha sempre un aneddoto da riportare. Io no, non lo conoscevo. Conosco però chi lo ha guardato in televisione, lo ha amato come personaggio e adesso è dispiaciuto, è commosso. Anch' io ieri l' altro, sul tardi, ho guardato il racconto che Bruno Vespa ha mandato in onda intervallando spezzoni di trasmissioni e ricordi dei colleghi. Anch' io sono rimasto un po' imbambolato dietro il "Frizzolone". Non sapevo per esempio che Frizzi avesse donato il midollo osseo, sapevo invece della sua sensibilità verso il sociale. Non sapevo di una sua polemica con il direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce dopo Miss Italia; sapevo invece della popolarità riscossa tra la gente comune, quella stessa gente che ieri lo ha voluto salutare alla camera ardente in viale Mazzini. Ho ascoltato e letto i commenti del popolo, tutti rivolti alla persona per bene, al professionista preparato e garbato, ma soprattutto a "Frizzi, uno di noi". Ecco, uno di noi, uno del popolo, uno che non si era montato la testa nonostante la popolarità acquisita grazie alla scatola magica. Fabrizio Frizzi piaceva perché pop, perché popolare. Di più ancora, perché nazionalpopolare e non uso a caso questa parola usata anche in ambienti televisivi come una clava se non come epiteto offensivo: memorabile fu l' uso dell' espressione scelto dall' allora presidente Rai Enrico Manca contro Pippo Baudo. Anche in quella remota stagione, tv e politica duellavano sul senso sociale della scrittura televisiva e fece discutere proprio quel "nazionalpopolare" che recuperava il "nazionale e popolare" con cui Gramsci ammoniva della frattura tra intellettuali e popolo. Fatte le debite proporzioni, anche oggi siamo fermi lì, sospesi stavolta tra pop e... populismo. Leggi anche: Frizzi, il durissimo intervento di Bartoletti: "Chi lo ha umiliato e ora deve chiedere scusa" Frizzi vince oltre gli ascolti, commuove (nel senso etimologico del termine) e diventa il simbolo di chi resta coi piedi per terra, di chi sorride a costo di apparire esagerato nella sua vitalità (il donatore è esagerato per indole se ci pensate bene...). Ecco, lo stesso favore si trasferisce in politica nel momento in cui quello stesso popolo rompe il muro degli arroganti, dei rottamatori, dei professori, e si conforta nella saggezza popolare di chi frequenta i mercati (non quelli finanziari), di chi predica la morigeratezza del costume e l' oculatezza nelle spese. Di chi fa breccia nei cuori dei nonni perché pensa al futuro dei nipoti. Dopo il tempo del leaderismo, torna il tempo del buonsenso: la riforma delle pensioni fatta non per assecondare l' Europa ma per consentire alle persone di riprendersi la parola "serenità" senza per questo fare gli scongiuri; il lavoro con diritti e buste paga che non siano una paghetta; le imprese liberate dal giogo di follie burocratiche e di banche che non fanno più le banche. Il voto delle recenti elezioni ha sancito la vittoria popolare; eppure vi è ancora chi si scaglia contro i populisti da talk show. Una politica nazionalpopolare è una politica che rimette la società al centro, troppo a lungo schiacciata da altri interessi elitari. Nazionale e popolare perché sottrae tutto ciò che è imposto. Essere "uno di noi" significa sconfiggere la logica della Casta, essere "uno di noi" significa immunizzarsi al tradimento di chi non è stato scelto ma è stato cooptato. Nessuno si commuoverà mai per i cooptati. Vale per la tv come per la politica. di Gianluigi Paragone

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