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Paolo Villaggio, la figlia: "Ho odiato papà Fantozzi. L'hanno abbandonato e ho un rimpianto. Prima della sua morte..."

Giulio Bucchi
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L' appuntamento romano è in un caffè di piazza dei Carracci, tra l' Auditorium della Musica e il Ponte Milvio. Elisabetta Villaggio ha gli stessi occhi di papà Paolo e l' identica timidezza. Classe 1959, ha studiato Filosofia all' Università di Bologna e Cinema e Televisione in quella di Los Angeles, ha realizzato cortometraggi e documentari, insegna all' Accademia di Belle Arti e scrive romanzi che parlano di donne. L' ultimo, La Mustang rossa, lo ha dedicato proprio ai genitori, stretti in un amore lungo oltre 60 anni. Lo scorso 3 luglio è stata lei, la primogenita dell' attore, ad annunciarne la scomparsa: «Ciao papà, ora sei di nuovo libero di volare». «Aveva 84 anni - ricorda -, si è spento per complicazioni legate al diabete che ormai curava poco e male. Era diventato tutto troppo difficile per lui, non camminava più, scriveva e vedeva con fatica, in pochi venivano a trovarlo. Eppure è riuscito a stare dentro le sue cose fino all' ultimo. A sorpresa abbiamo scoperto tra i cassetti materiale per un libro in uscita: Italiani, brava gente. Racconta: «Per mesi non sono riuscita a riavvicinarmi alle sue cose. Ce l' ho fatta a Natale. L' ho considerato il suo regalo». Lei non se ne accorge, ma spesso parla di lui al presente. E io la lascio fare. Commossa. Non deve essere stato facile vivere all' ombra di un papà tanto popolare... «È vero. Per tutti sono sempre stata la figlia di Villaggio. Sin da bambina alle feste dei coetanei. Non ero mai Elisabetta, ma sempre la figlia di... Così ho cercato il prima possibile una strada d' indipendenza: sono volata in America a studiare e a lavorare lontana dalle malignità di chi mi dava della raccomandata. Non è mai stato così, mio padre su questo punto era irremovibile: o ce la fai con le tue forze o sei un fallito. Era capace di pagarmi l' affitto, ma non mi ha mai presentato a nessuno. Non a caso i miei libri sono stati tutti pubblicati da piccole case editrici. La sua amorevole assenza mi ha fatto crescere una donna forte». I suoi ricordi di bambina?  «Una casa sempre piena di amici e di tavolate. Quando mio padre lavorava all' Italsider già faceva cabaret in un teatrino studentesco. Per passione, non per soldi. Lì iniziò la grande amicizia con De Andrè. La canzone di Marinella in parte è stata scritta a casa nostra e io mi addormentavo su quelle note, come se fosse una favola. Papà d' estate lasciava me e mio fratello Pierfrancesco dai nonni e andava a fare gli spettacoli sulle navi Costa Crociere, accompagnato al piano da Berlusconi. Lo vedevamo poco, non era il classico papà che ci aiutava a fare i compiti e ci portava al parco. Ma c' era alla sua maniera. Per esempio, mi ha fatto amare la lettura. Mi ha messo tra le mani Dostoevskij a 12 anni. Spesso bleffavo, facevo finta di leggere quei libri, ma erano più ostici del cinese. E grazie a lui ho scoperto la psicanalisi e Fromm. Lui sapeva tutto della Divina Commedia, del Corano ed era un esperto di testi giapponesi. E poi amava viaggiare. Ecco, il nostro stare insieme come famiglia passa attraverso itinerari memorabili, soprattutto all' estero dove non era riconoscibile ed era esclusivamente nostro padre. Ricordi indelebili mi portano in California, su un' auto a noleggio attraversammo la Valle della Morte. E poi il mare della Polinesia e il giro dei Caraibi in barca a vela». Il ragionier Fantozzi è un collante per le generazioni.  «Oggi i bimbi non sanno chi è Paolo Villaggio, ma riconoscono Fantozzi. Ne imitano la voce e le movenze. Io non ho mai amato particolarmente quel personaggio, non mi faceva ridere tutto di lui, soprattutto negli ultimi film. Quando usciva un Fantozzi mio papà caricava su un pullmino me e i miei amici e ci portava al cinema. Voleva sapere cosa ne pensavamo, quali erano le battute migliori. Insomma, ci studiava. E quante volte da ragazzina sono stata chiamata Mariangela.... Per me la sua interpretazione più bella resta quella del maestro in Io speriamo che me la cavo diretto da Lina Wertmuller. Ma in assoluto il mio film del cuore è Casablanca con Bogart e la Bergman. Esprime tutto: l' amore, il tradimento, la passione, la fuga, la guerra, la politica». A proposito di politica, lei sta bene in quest' Italia?  «Abbiamo il mare, le città e il patrimonio artistico più belli del mondo, cibo e moda che fanno tendenza ma non siamo capaci di valorizzarci. Ci manca il concetto di cosa pubblica, il senso civico e lo spirito di condivisione. E non abbiamo una politica in grado di confrontarsi sui problemi reali. Si ragiona a comportamenti stagni e in Parlamento si preferisce urlare come in taverna invece di prendere decisioni. Nella politica ci ho creduto, l' ho fatta anche attivamente. Ma ora è l' ideologia a rovinare tutto. Per la prima volta sono andata a votare senza convinzione e confusa, l' ho fatto solo per rispetto di quelle donne morte per assicurarci questo diritto». C' è qualcosa che non ha fatto in tempo a dire a papà?  «Siamo stati accomunati dalla stessa difficoltà di esternare affetto. A lui capitava anche con mia mamma. Insieme da una vita, non li ho mai visti scambiarsi in pubblico un abbraccio o un bacio, quasi a proteggere la loro intimità. Mi è mancato dirgli "ti voglio bene". Non ci sono mai riuscita, come lui non è stato capace di dirlo a me. Ti voglio bene è rimasto intrappolato nel silenzio di entrambi. Oggi mi pesa». Tre mesi prima che morisse, lei pubblicò su Facebook un selfie sorridente con lui, bacchettando il cinema italiano che lo aveva dimenticato: "Non starà al meglio, ma mio padre c' è". «Scoppiò il pandemonio, ma lo rifarei ancora. Lo postai d' istinto, dopo che con lui avevo visto la registrazione dei David di Donatello. Non disse nulla, ma nei suoi occhi c' era tristezza per un ambiente a cui aveva dato moltissimo e che si era dileguato. Papà non ha mai avuto un carattere facile, è sempre stato un bastian contrario, uno che non le ha mai mandate a dire, la sua ironia a volte passava per maleducazione. Insomma, lasciarlo da parte non deve essere stato un grande sforzo... Con lui era normale avere un rapporto impegnativo, anche di scontro. Lo è stato anche con me ma ci siamo ritrovati forti insieme nel periodo buio della tossicodipendenza di mio fratello». Dimenticato dalla macchina da presa, ma soprattutto dagli amici.  «Lui con gli amici è sempre stato molto generoso: invitava e pagava per tutti. È stato uno dei nostri motivi di contrasto. Io volevo che distinguesse tra gli amici veri e quelli che lo affiancavano per convenienza. Solo il pubblico non lo ha mai trascurato. E lui ricambiava, col sorriso. Anche quando ormai girava in sedia a rotelle, senza smettere di andare al supermercato o al bar». Paolo è stato il primo ad intuire la sua indole per la scrittura...  «Papà colmava i vuoti delle parole con gesti affettuosi. Ero una bambina ma aveva capito quanto mi piacesse scrivere e mi regalò una Olivetti Valentine rossa. Su quei tasti ho battuto i miei primi racconti. Li ho ritrovati un paio di anni fa e In viaggio con Poldina è diventata una favola per i più piccoli. Poldina era la mia bambola preferita, l' ho buttata via insieme a tutte le altre. Me lo ricordo ancora quel giorno, ero in terza media. È sempre stato così, non riesco a conservare gli oggetti del passato». Neppure quelli di papà?  «A casa ho alcuni dei premi vinti in carriera. Era orgoglioso e ci teneva tantissimo. Altri li donerò al meraviglioso Museo del Cinema di Torino. Ma io papà me lo porto addosso, mi ci avvolgo dentro. Dal suo guardaroba ho preso una giacca in pelle nera, un' altra in stile tirolese e un golf a righe celesti e beige che ho riadattato a vestito. Indosso quei capi ed è come averlo ancora con me». di Paola Pellai

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