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Inter, il murale imbrattato e il commento di Fabrizio Biasin: sono bestie, non tifosi

Andrea Tempestini
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Abbiamo scelto di scrivere questo pezzo sul murales imbrattato in via Borsieri a Milano. In automatico abbiamo pensato: «È una faccenda legata al mondo dello sport, ne scriviamo volentieri». Ecco, abbiamo pensato una cazzata. Cosa c'entra lo sport con «qualcuno che di notte raccatta svariate latte di vernice rossa e le getta a sfregio su un disegno interista inaugurato tre giorni fa»? Niente. Cosa c'entra il tifo? Una mazzafionda. Per carità, di sicuro dietro a Pierino che insozza il muro del quartiere Isola c'è un “nemico dei nerazzurri” ma, capiamoci bene, qui siamo “oltre”, siamo nel meraviglioso mondo della cretineria, delle bestie, e le bestie non hanno colore perché... sono bestie. Eccolo qui, il murales insozzato. Lo potete vedere un po' ovunque, ricorda al mondo intero quanto può fare tristezza la razza umana, divisa tra gli illusi che «l'uomo è illuminato!», i realisti che «purtroppo siamo questa roba qua» e i cavernicoli senza speranza che oggi imbrattano, ieri hanno messo «rip» sotto al post dedicato ad Astori e domani scriveranno «le esplosioni in cielo sono colpa del grano transgenico, fidati». GUIDATI DALL'ISTINTO Le bestie fanno tutto in automatico, senza sapere perché e non c'è molto altro da dire, non ci sono analisi sociologiche da fare; sono quelli che si ammazzano di pippe su internet, quelli che bestemmiano per un semaforo «troppo rosso», quelli che si spaventano davanti alla vetrina di una libreria. Sono guidati dall'istinto: «Avere-sete, bere-birra», «oggi-tanta-fame, dire-moglie-mia-di-fare-peperonata-e-poi-ciulatina»; sono quelli che ridono con i rutti e le scuregge, sono quelli che «minchia c'è il murales dell'Inter e non quello della mia squadra! È un affronto! Devo mostrare al mondo che ce l'ho bel duro e allora vado a imbrattarlo prima che lo facciano altri, che poi si prendono il merito e i cuori su Instagram». Bestie. Sono gli automi che mettono migliaia di like a personaggi senza arte né parte sui social network, sono quelli che un tempo dicevano la loro cazzata a casa e solo papà e mamma sapevano quanto era cretino il loro bambino, ma oggi invece no, ci tengono a pubblicizzare la loro cretineria e fanno il tweet per dire quel che gli passa per la mente. E allora è tutto un proliferare di teorie strampalate e sgrammaticate («che io non li volessi vaccinare i figli miei che c'è la scia chimica!»), di insulti gratuiti per questioni di invidia («minchia che fallito Fedez!», «perché? Se guadagna 13234 miliardi scemo non deve essere...», «perché lo dico io!»), di frustrazioni professionali represse e linguistiche manifeste («io farebbi il 3-6-1, mica come quel sopravvalutato di Spalletti! Ci dovrei essere io al posto suo!»), di ego smisurati («se io sarei Mattarella vedresti tu come gira il Paese»), di considerazioni retoriche e sempreverdi («fanno la bella vita i Papi ma se venderebbero l'anello pastorale risolvono la fame nell'Africa!»), ma anche di correttezza verso qualsivoglia morto famoso per questioni di istintiva e primordiale educazione civica («Rip Moro». «Guarda che non era l'anniversario della morte, ma del rapimento e comunque sono passati 40 anni». «Zio, non hai rispetto per i morti famosi, rip anche per te»). Sono relitti umani governati da sinapsi elementari che imbrattano in nome dell'unica legge che riconoscono, quella della giungla e della panza piena. INVIDIA E CATTIVERIA “Bestie”, appunto, e in più rispetto alle bestie hanno l'invidia e al pari delle bestie, invece, la cattiveria e l'istintività. Poi oh, va detto, ci tocca anche ringraziare questi pupazzi, perché è merito loro se noialtri possiamo sentirci “migliori”: anche solo per aver unito tutti i tifosi senzienti («chiunque sia stato, milanista, juventino, visigoto o ostrogoto non è l'esponente di una tifoseria, ma uno scimunito», il commento più comune), anche solo perché una volta abbiamo unito tutti i puntini nella Settimana Enigmistica, anche solo per aver capito che buttare una notte per realizzare una puttanata del genere non è «giusto o sbagliato», è solo infinitamente triste. di Fabrizio Biasin

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