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Makers italiani, quei compaesani che inventarono il futuro

Nicoletta Orlandi Posti
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Scrivo queste righe vibrando - direbbe lo scrittore Fredric Brown- sull'assurdità degli infiniti universi possibili. Sfoglio il catalogo della mostra romana Make in Italy, che festeggia da oggi mezzo secolo di successi hi-tech tutti italiani. E lo faccio con un pensiero a Federico Faggin, bonario perito industriale vicentino medagliato da Obama quale inventore del primo microprocessore (e quindi dell'informatica moderna) ma da noi mai filato di pezza; e con un altro all'ingegner Carlo De Benedetti quando, alla guida dell'Olivetti, rifiutò un prestito al giovane Steve Jobs -un spiantato capellone senza talento- in cambio del 20% di Apple, una piccola ditta nata in un garage. Forse davvero il peggio che possa capitare a un genio è d'essere compreso. Forse. Arduino - Mentre debutta Make in Italy, 50 anni di innovazioni italiane, dalla Programma 101 ad Arduino alla Maker Faire di Roma (al Parco della Musica) rifletto sul fatto che da qualche parte, in America, un designer, Michele Anoè, sta provando un motore Renaut su un'auto da corsa stampata in 44 ore con una stampante in 3D, godendosela come un pazzo. Nello stesso momento, probabilmente, Enrico Dini, toscano di Pontedera, fa entrare e uscire i compratori dalle sue case stampate tridimensionalmente e depurate dalle polveri d'inchiostro. E immagino pure che, da qualche parte, in Russia, un trentenne palermitano, Giovanni De Lisi con due suoi compari della Green Rail, invece di fare il disoccupato lagnuso come sarebbe logico fare a Palermo, stia cercando di vendere le sue traversine superecologiche per rotaie che traggono energia dal passaggio dei treni agli amici di Putin, dopo avere ricevuto il due di picche da Trenitalia. E credo anche che, da qualche parte, magari in Germania, altre due giovani laureate siciliane, Adriana Santanocito e Enrica Arena, tentino di commercializzare la loro fibra tessile che trasforma le bucce d'arancia in tessuto setoso ultraresistente. Rifletto, insomma, su quello che il nuovo guru tecnologico di Matteo Renzi, l'amico Riccardo Luna, chiama «la sindrome di Meucci» -da Antonio Meucci che non potè brevettare il suo telefono-, ossia quell'incapacità tutta italiana di farsi fregare le idee migliori, o di cederle ad altri popoli più lungimiranti. Il primo computer è nostro - Per dire. Make in Italy ricorda che esattamente cinquant'anni fa veniva inventato il primo personal computer della storia: non in Silicon Valley, ma in Italia, alla Olivetti. Si chiamava la Programma 101 e quando venne presentato alla Expo mondiale di New York nel 1965 fu subito un successo, al punto che alcune P101 le ritroviamo nella sala comandi della Nasa durante lo storico primo allunaggio. Naturalmente l'Olivetti senza il patròn Adriano decise che l'informatica era una scienza non affidabile, e si dedicò ad altro. Sicchè, in un tripudio di prototipi, software, installazioni, schegge di fantasia, mi vengono in mente sia il gesuita Padre Busa all'IBM inventore del primo grande sistema di digitalizzazione applicato alla Summa Teologica di Tommaso D'Aquino; sia Nanni Balestrini che nel '62 generò la prima poesia al pc, ma venne confinato alla follia goliardica delle avanguardie. L'innovazione italiana è un fiume carsico che oggi è in fase riemergente. E bisogna che qualcuno coi soldi se ne accorga. Magari non le banche, riluttanti al rischio per natura. Magari i fondi privati, come il Premio Marzotto. Per dire, le università di Genova e Lecce sono all'avanguardia nella robotica. Ma potrei citare decine di esempi. Anzi, lo faccio. Nel 2009 Giorgio Metta, uscendo da un racconto di Asimov, è il primo a creare un robottino androide che si muoveva e parlava come un bimbo di tre anni. Nel 1992 il torinese Leonardo Chiariglione definisce lo standard per la compressione digitale dei file audio, roba che oggi diamo per scontata sull' Mp3. Nel '97 Massimo Marchioni s'inventa l'algoritmo per motore di ricerca Hyper Search che si basa sul rapporto tra singola pagina e il resto del web. Do you know, Google? Nel 2005 un massiccio milanese somigliante a Bud Spencer, Massimo Banzi, crea Arduino la scheda elettronica microprogrammabile open source «per la robotizzazione, in grado di creare i prototipi più disparati». Cioè può trasformare un vecchio registratore in un drone volante e un telefonino in un telecomando che dialoga con le piante e con la macchinetta del caffè. O può ordinare al tv di togliere l'audio agli spot, o ai programmi trash. Nello stesso anno, la Stmicroelecronics di Agrate Brianza di Bruno Munari produce il microsistema elettromeccanico cuore dei videogames contemporanei. Sono tutti Maverick, italiani fuori dal branco, gente dal genio diffuso. E noi stiamo ancora qui, a parlare di articolo 18... di Francesco Specchia

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