L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Io Fini lo conoscevo bene. Scrivo conoscevo, al passato, perché quello che ho visto giovedì in tv e che ho ascoltato negli ultimi due anni mi pare un estraneo. Neppure l'oratoria, arte in cui eccelleva svettando perfino sul Cavaliere, pare rimasta: lui, allievo di un comiziante perfetto come Giorgio Almirante, alla direzione nazionale si è limitato a un discorso confuso e rancoroso, privo di visione, se non quella di contrapposizione a Berlusconi e alla Lega, senza alcun calore. Quanto sono lontani gli anni in cui, pur alla guida di un partito isolato come un infetto, sapeva riscaldare gli animi. Il mio primo incontro con lui risale alla campagna elettorale del 1992, quella in cui debuttò la Lega e prima ancora che il Cavaliere sdoganasse Fini. All'epoca ero all'Indipendente, diretto da Feltri, il quale però in quei giorni era assente. Il giornale dava ampio spazio alle uscite di Bossi e in una di queste il Senatur aveva attaccato duramente il capo del Msi. Mi chiamò Storace, che allora era il portavoce di Gianfranco: ospitereste una lettera di Fini? La richiesta era timorosa, quasi si aspettasse un no. A quei tempi non era facile per il segretario di un partito erede del fascismo farsi pubblicare qualcosa. Nei giornali la vigilanza democratica era sempre allerta e anche una lettera del segretario del Movimento sociale poteva bastare per far scattare uno sciopero o la protesta sindacale. Ovviamente la replica di Fini uscì sulla prima pagina dell'Indipendente, senza tagli e senza commenti. Fu da lì, credo, che nacque se non una simpatia un certo rispetto, consolidato poi anni dopo, quando divenni direttore de Il Tempo e presi a frequentare il leader di An e tutto lo stato maggiore di via della Scrofa, partecipando ai loro incontri e alle loro cene, anche a casa di donna Assunta Almirante. Era il 1996 ed era ancora vivo Pinuccio Tatarella, il quale quando fui cacciato dal quotidiano romano per aver osato raccontare i maneggi di Scalfaro, organizzò al Senato una conferenza stampa con molti parlamentari. E' di quel periodo anche la mia conoscenza con Bocchino, Gasparri, Maceratini, Bontempo, Consolo, Baldassarri, Ronchi e molti altri che in questi giorni sono protagonisti: chi con Fini, chi contro. Se mi dilungo con l'amarcord è per dire che il Fini di quegli anni era un altro Fini, il suo progetto politico era differente. Non parlava di biotestamento e di unioni gay, ma era ancora il leader di un partito legge e ordine. Non era contro i respingimenti, ma per una politica dura che contenesse l'immigrazione clandestina. Non pensava a dare la cittadinanza agli stranieri, semmai era per la difesa dell'italianità. Di molte cose si parlava in quegli anni, anche quando ci vedevamo nei pranzi di fine agosto ad Anzio, dove Gianfranco aveva un appartamento, ma mai di ciò che adesso propugna. Che qualcosa in lui fosse cambiato per capirlo non ho dovuto attendere la direzione nazionale di giovedì. Non solo i suoi interventi, ma anche un fastidio visibile verso i suoi camerati di partito, verso certi suoi sostenitori e perfino verso quella che per un certo periodo era stata considerata la stampa amica si percepiva da tempo. Alle interviste con il Giornale Fini preferiva quelle con Repubblica o con il Corriere e nei confronti dei cronisti del quotidiano moderato riservava spesso un trattamento sprezzante e altezzoso come se, essendo giunto nel salotto buono del giornalismo, non sentisse più il bisogno di frequentare il tinello domestico. Di lui già sulla fine degli anni Novanta si cominciò a dire che avrebbe volentieri fatto a meno del suo partito e dello stato maggiore. Forse vedeva quelli di An come un intralcio sulla strada per l'affermazione: dei nostalgici che potevano solo fare da zavorra alla sua ascesa. I sondaggi già lo segnalavano nell'empireo dei leader e a sinistra molti lo dipingevano come un interlocutore preferibile al Cavaliere. Di sicuro Gianfranco ha immaginato di poter prendere il posto di Silvio. Alle Europee del 1999 sognò con Segni di occupare lo spazio di Berlusconi ed era già chiaro dove voleva arrivare. Ma l'errore non è stato sognare. E' stato provarci.