L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Non c'è nulla di più noioso degli articoli che riguardano fatti interni alle redazioni. I giornalisti credono siano determinanti per le sorti del paese e faticando a capire che interessano solo loro e non i lettori, i quali hanno ben altro di cui occuparsi. Di solito, per questo motivo mi astengo dall'intervenire su questioni di bottega che riguardano il nostro mestiere. Oggi però sono costretto a un'eccezione, per rispondere a un'intervista che Enzo Bettiza ha concesso ad Aldo Cazzullo, sul Corriere della sera. In essa rivela d'aver votato Lega, attribuendo al Carroccio un'eredità asburgica. Nelle pieghe riferisce anche della sua mancata nomina a direttore del Giornale, nel dicembre del 1997, ricostruendo i fatti a suo piacimento e soprattutto dipingendomi come il braccio armato di Berlusconi. Ora, può anche essere che io all'epoca fossi armato, ma di certo solo di una penna, la quale non era di sicuro al servizio del Cavaliere visto che nel 1997 non lo conoscevo né gli avevo mai parlato, se non una volta per telefono. Bettiza invece a Silvio era abituato a dare del tu fin dagli anni Ottanta. La sua confidenza con il leader del centrodestra era tale che appena intuì il prossimo cambio di direzione al Giornale si mise a brigare per subentrare a Feltri. L'uomo aveva lasciato via Negri litigando con Montanelli e sognava un ritorno in grande stile sulla poltrona che era stata dell'amico-nemico. Lui parlava di un risarcimento dovuto, in realtà voleva prendersi una rivincita su Indro, che lo aveva cacciato. Per questo si fece ricevere da Gianni Letta, confidando in un intervento dell'eminenza grigia berlusconiana a suo favore. Ma Gianni, che io avevo incontrato una sola volta quando mi ero insediato alla direzione de Il Tempo, probabilmente gli disse che la proprietà era orientata ad affidare la direzione al sottoscritto, magari con un direttore onorario di fianco avendo io all'epoca soli 38 anni. Bettiza a questo punto si candidò, dicendo che sarebbe stato onorato di tornare al Giornale con un condirettore come me, al quale avrebbe concesso ampia delega. Riferisco il colloquio tra Letta e Bettiza come mi fu riportato da quest'ultimo, il quale pur conoscendomi appena si premurò di telefonanarmi subito dopo essere uscito dall'ufficio del futuro sottosegretario. Nei giorni successivi si preoccupò di tenersi ben informato degli sviluppi, facendomi chiamare da una persona amica, così da sapere se avessi novità. Ma io, non avendo contatti né con Berlusconi né con Letta, di novità ne avevo zero. A me l'offerta di dirigere il Giornale fu fatta da Amedeo Massari: lo storico consulente editoriale del gruppo mi disse che l'uscita di Feltri in seguito all'accordo con Di Pietro aveva fatto perdere decine di migliaia di copie e mi chiese se me la sentissi di condurre il Giornale in un momento tanto difficile. Successivamente incontrai Paolo Berlusconi, Roberto Crespi e Gian Galeazzo Biazzi Vergani, rispettivamente azionista e dirigenti del quotidiano. Furono loro, insieme a Massari, a propormi una condirezione con Bettiza e a loro spiegai che avrei accettato solo se i poteri articolo sei del contratto di lavoro fossero stati miei. In pratica le assunzioni e la conduzione del Giornale dovevano essere mie prerogative, diversamente sarei rimasto dov'ero, a fare il vicedirettore del gruppo Monti. Quando sembrò fatta, come ricorda Bettiza, ci fu una cena ad Arcore, con il Cavaliere (lì lo incontrai per la prima volta), Paolo Berlusconi, Letta e Confalonieri, Silvano Boroli e gli altri dirigenti del quotidiano, ma andò diversamente da come la ricostruisce. Mi bastò poco per capire che le cose non erano chiare. Bettiza infatti passò la serata a spiegare come avrebbe fatto il Giornale. Voleva defeltrizzarlo e schierarlo contro la Lega, a favore di una destra nobile, riportando la Terza a pagina tre, come usava una volta, e reintroducendo l'Elzeviro. Mi fu chiaro che voleva fare un giornale dell'Ottocento e per questo a fine cena ringraziai e salutai, spiegando che la situazione mi pareva al quanto confusa e dunque preferivo restarmene a Bologna. Paolo e Silvio Berlusconi insistettero, chiedendomi di parlare con Bettiza. Con il quale ci vedemmo a pranzo, al Savini, l'indomani. Enzo mi spiegò che lui mi avrebbe concesso molta autonomia, ma desiderava portare con sé alcuni colleghi come Francesco Damato e Pilade Del Buono, non Francois Fejtò, come oggi ricorda, perché l'intellettuale ungherese già scriveva per il Giornale. A metà pranzo fummo raggiunti dall'agente letterario di Enzo, la quale riferì che Massari aveva respinto gran parte delle richieste di Bettiza: niente assunzione di una sua segretaria personale, niente autista esclusivo, niente tata che gli rimboccasse le coperte la sera. Enzo si dimostrò offeso: