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L'editoriale

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di Fausto Carioti

Michela Ravalico
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Il consenso c'è: lo si è visto alle elezioni regionali e - nonostante tutto quello che è successo - lo confermano i sondaggi. I soldi scarseggiano e sono già motivo di scontro, ma quelli, in un modo o nell'altro, alla fine saltano sempre fuori. E comunque l'assenza di un'opposizione degna di questo nome consente a chi governa margini di errore amplissimi. Il problema vero, per la maggioranza, è che manca l'ingrediente più importante: la fiducia tra i suoi leader. Senza la quale non si può fare nulla, nemmeno proseguire la legislatura. Il gelo tra il premier e Gianfranco Fini è solo l'esempio più visibile, e nemmeno il più pericoloso. Assai più rischioso, in questo momento, è il fronte tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. In discussione non c'è la linea del rigore, che è stata apprezzata da Bruxelles e ha dato modo al presidente del Consiglio di farsi bello con il lavoro del suo ministro. Il punto, semmai, è come attuarlo, questo rigore. Il Cavaliere, racconta un alto esponente del suo partito, «si sente messo all'angolo da Tremonti. Per lui è innanzitutto una questione di identità: sente che stavolta, con la manovra di Tremonti, può finire per sempre la sua connotazione liberista, che l'accompagna dal 1994». Per essere chiari: provvedimenti quali la tracciabilità dei pagamenti rischiano di passare come una vessazione nei confronti dei professionisti, tradizionale bacino elettorale del centrodestra, e non fanno parte della cultura di Berlusconi. «Cose simili, semmai, era lecito aspettarsele da Vincenzo Visco», mugugna un deputato berlusconiano della prima ora. Al premier non piace nemmeno il progetto di intervenire sulle buste paga degli statali, e in questo - per una volta - si trova a pensarla come Fini. Sia perché così si perdono consensi, sia perché il taglio degli stipendi dei dirigenti pubblici rischia di essere bocciato dalla Corte costituzionale. Le perplessità del premier celano il sospetto che Tremonti stia lavorando per Umberto Bossi, preparando una manovra più dura del dovuto per mettere fieno in cascina in vista dell'avvio del federalismo fiscale, che - almeno in fase di partenza - rappresenta un'incognita per le casse pubbliche. Così, quando Berlusconi ieri ha detto che la manovra «non aumenterà le tasse» né toccherà «la sanità, le pensioni, la scuola e l'università», parlava ai suoi elettori, ma in realtà fissava i paletti per l'azione del ministro. Pure la Lega vede le sue scorte di fiducia esaurirsi. L'altro giorno Bossi, dicendosi «molto preoccupato» per il federalismo, ha espresso un pensiero che è di molti esponenti del Carroccio. Anche perché i ministri del PdL intendono vederci chiaro. Per tutti loro, berlusconiani e finiani, ha già parlato Renato Brunetta: «Se qualcuno mi dice che il federalismo costa, io dico meglio non farlo». La Lega inizia a guardare con il fiato sospeso anche le mosse di Tremonti: finora il ministro ha mostrato di mettere il rigore prima di tutto. Lo metterà anche prima del federalismo? Perché se la risposta è «sì», per vedere realizzato il federalismo fiscale si dovrà aspettare la ripresa economica. Insomma, si rischiano tempi ben più lunghi di quelli previsti da Bossi. Il quale, intanto, ieri ha ammesso che i conti della manovra faticano a tornare: «Ci incontreremo sia con Berlusconi sia con Tremonti, perché non è che tutte le cose siano chiare». A conferma del fatto che in questa fase il problema più grave non è la convivenza tra Berlusconi e Fini, c'è la richiesta, presentata dal ministro finiano Andrea Ronchi, di «condividere» la manovra con le parti sociali e discuterla all'interno dello stesso PdL. Tradotto: Tremonti si scordi di fare tutto da solo. Lui, ovviamente, non ha alcuna voglia di sottoporsi a un tale esame. La stessa richiesta, peraltro, era stata avanzata dai forzisti durante l'ultimo consiglio dei ministri. Racconta una fonte di governo che da anni è vicina a Berlusconi: «Tra noi e i finiani c'è la convinzione unanime che la manovra debba essere discussa con le parti sociali, con i gruppi parlamentari, con i partiti della coalizione e in particolare con il PdL». Tremonti ha risposto che non c'è tempo per fare tutti questi giri, ma il resto del partito non la pensa allo stesso modo. Prosegue la fonte: «La situazione è delicata, ma non c'è alcuna urgenza. C'è tempo sino al prossimo appuntamento europeo, che sarà il vertice Ecofin del 7 giugno. Quindi va bene il rigore invocato da Tremonti, ma drammatizzare è sbagliato. Anche perché l'economia reale inizia ad andare bene». In un colloquio teso che ha avuto l'altra sera davanti a Berlusconi e Gianni Letta, Tremonti è tornato a ventilare l'ipotesi di dimettersi se le cose non andranno come chiede lui. L'unico risultato che ha ottenuto, raccontano, è stato quello di accrescere la diffidenza di Berlusconi: dopo gli americani che entrano a gamba tesa sulla legge sulle intercettazioni, Giorgio Napolitano che gli intima di non varare più decreti «troppo eterogenei», Fini che è quello che è e i magistrati che fanno quello che fanno, il premier adesso vuole evitare di aggiungere il nome del ministro dell'Economia alla lunga lista dei suoi nemici.

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