L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Conosco Guglielmo Epifani e so che, nonostante il ruolo e la carriera tutta percorsa dentro il sindacato rosso, è un uomo moderato. Fosse per lui troverebbe sempre un accordo. Magari dopo estenuanti trattative, che per certi funzionari confederali sono un rito a cui non riescono a sottrarsi neppure se il padrone gli dà il portafoglio e li invita a non fare complimenti. Sono certo dunque che, dopo lunghe discussioni e serate trascorse intorno a un tavolo, in cuor suo il mite segretario della Cgil avrebbe voluto dire sì all'accordo con la Fiat. Nonostante tutto, egli sa bene che non c'è alternativa alla firma del patto con la casa automobilistica, perché in tempi come quelli attuali non bisogna fare gli schizzinosi di fronte a un'offerta d'investimento di 700 milioni di euro e la promessa di non licenziare nessuno. La crisi economica riguarda tutti, figurarsi un'azienda di macchine che fa i conti con la concorrenza di tutto il mondo, Corea compresa. Dunque, penso che riflettendo, Epifani si sarà convinto che in cambio del posto sicuro bisognava rinunciare ad alcune conquiste, come per esempio dieci minuti della pausa pranzo e il pagamento delle assenze. Purtroppo non ha avuto il coraggio di spiegarlo agli operai e agli impiegati di Pomigliano. O meglio: ai lavoratori della fabbrica campana non c'era neppure bisogno di dirlo, perché avevano già capito tutto e l'affluenza ai seggi per partecipare al referendum sull'accordo lo dimostra. Chi aveva bisogno di sentire la voce del capo era la federazione metalmeccanici della stessa Cgil, ovvero i compagni sindacalisti di Epifani, funzionari come lui, i quali come lui dovrebbero mirare a far gli accordi con le imprese e non a sabotarli. È vero che quelli della Fiom sono sempre stati delle teste calde, convinti di essere l'avanguardia del movimento operaio, e dunque a volte non c'è verso di farli ragionare. Ma Epifani almeno avrebbe dovuto provarci e non sottovoce o in privato, come ha fatto, ma parlando chiaro e, se occorreva, anche battendo i pugni sul tavolo. Intanto per far capire chi comanda ai vertici del sindacato più importante d'Italia: non può essere infatti che sia una succursale, per quanto importante, a dettare la linea alla casamadre. Eppoi perché, essendo un periodo di grandi cambiamenti, anche economici, è ora che i vertici confederali abbiano il coraggio di parlar chiaro e di dire le cose come stanno anche a chi non ha voglia di sentirsele dire. Troppo comodo assecondare le aspettative: ci sono momenti in cui è d'obbligo la verità. E la verità il sindacato troppo spesso la nasconde, raccontando alla propria base solo ciò che questa vuole ascoltare. Nel passato ho fatto il cronista sindacale e dunque mi è capitato di riferire storie di aziende in agonia e altre di società che erano già defunte ma i cui dipendenti, con l'assistenza di Cgil, Cisl e Uil, si rifiutavano di prendere atto del trapasso. Ecco: ho sempre pensato che tutto ciò fosse una presa in giro dei lavoratori stessi. Un sindacalista non deve illudere gli operai dicendo loro che la fabbrica è sana e bisogna lottare per farla riaprire. Quando un'impresa è morta al massimo le si può fare il funerale, mica il bocca a bocca. Nel caso di Pomigliano, lo stabilimento non è defunto ma di sicuro non sta tanto bene e lo sanno tutti, anche i funzionari della Cgil. Discutere dei princìpi mentre il paziente tira le cuoia non è una pratica consigliata, per il paziente s'intende. Epifani lo sa. Per questo aveva l'obbligo di dirlo a quelli della Fiom e se del caso di cacciarli. Infatti, a volte, anche dai moderati deve venire un ruggito, che in questo caso, perdendo un'occasione, non c'è stato.