L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Quando Giorgio Napolitano fu eletto, i nemici lo descrissero come un don Abbondio comunista, sopravvissuto a tutte le epoche geologiche del partitone rosso grazie a una straordinaria capacità di adattamento, che lo portò a legittimare perfino l'invasione dell'Ungheria. Massimo Fini, una delle colonne del Fatto quotidiano, qualche anno fa lo definì autorevole, ma anche neutro, amorfo, anonimo, grigio come i suoi abiti, scrivendo che la sua «unica qualità era di non averne alcuna». Di certo il presidente della Repubblica è arrivato ai giorni nostri con una solida fama di uomo non proprio coraggioso, alla quale ha tenuto fede anche quando la Corte costituzionale bocciò il Lodo Alfano che i suoi consiglieri giuridici avevano contribuito a scrivere, adeguandosi senza fiatare all'orientamento dei giudici. Ciononostante fino ad oggi non si può dire che sul Colle abbia fatto danni, evitando di diventare il capo dell'opposizione a Berlusconi, come fecero Scalfaro e, in misura minore, Ciampi. Da questo punto di vista l'attuale capo dello Stato si è dimostrato forse il migliore tra gli inquilini del Quirinale che ci sono toccati in sorte negli ultimi anni, perché non si è trasformato in una sorta di premier ombra come i suoi predecessori, i quali hanno provato in ogni modo a mettere i bastoni tra le ruote al Cavaliere. Ecco perché, viste le premesse, stupisce l'escalation con cui Napolitano ha interrotto le ferie. Prima l'intervista all'Unità, che lasciava trasparire un ritorno ai vecchi amori. Poi una lunga velina per il Corriere della Sera, in cui diceva chiaro e tondo che non esiterebbe un istante a varare un governo diverso da quello voluto dagli italiani. Infine la nota di ieri, con cui è giunto a sfidare la maggioranza, invitandola provocatoriamente a metterlo sotto accusa per tradimento della Costituzione. In tutta la sua vita credo che il presidente della Repubblica non abbia mai preso posizioni così nette e numerose quanto quelle pronunciate negli ultimi tre giorni. Sarà l'energia accumulata in vacanza oppure la sindrome del Colle che colpisce tutti i capi di Stato quando si avvicina la fine del loro mandato, sta di fatto che in molti stentano a riconoscerlo. Mai lo si era visto così determinato e sprezzante: fino a ieri, anche nei giorni di maggior tensione, aveva preferito smussare le parole, misurandole con parsimonia. Il cambiamento di tono e l'inatteso protagonismo, dunque, stupiscono ancor di più e fanno sospettare che il tranquillo ottantacinquenne si sia reso conto che senza di lui la sinistra non ce la farà mai a buttar giù il Cavaliere e dunque si sia messo al suo servizio. Del resto, bruciate a una a una le leadership che si oppongono a Berlusconi - buona ultima quella di Gianfranco Fini, schiantatasi contro il muro dell'appartamento di Montecarlo - è rimasto il solo a poter fare lo sgambetto al Cav. Usando le armi del rispetto della Costituzione, la quale ormai è diventata la foglia di fico con cui si copre qualsiasi vergogna, il presidente può dare un contributo fondamentale all'ammucchiata che sogna di liberarsi una volta per tutte di Berlusconi. Liquidando l'arma letale delle elezioni, condanna il governo a tirare a campare, costringendolo a mettersi d'accordo con i finiani e i loro sodali di sinistra, oppure a perire. Il gioco di Napolitano formalmente non è illegale e dunque le accuse sollevate nei giorni scorsi sono destinate a cadere nel vuoto. Non ci sono gli estremi per imputargli il tradimento della Costituzione ed egli può dunque a ragione farsi beffe dell'impeachment. Ci sono invece molte buone ragioni per criticarlo. Non sarà infatti censurabile penalmente il suo interventismo a favore della sinistra, ma lo è dal punto di vista politico. Soprattutto se si pensa che a opporsi al governo regolarmente eletto è rimasto un signore che nessuno avrebbe mai immaginato di eleggere alla carica più alta e, non fosse stato per Ciampi che lo nominò senatore a vita, oggi sarebbe solo un pensionato in vacanza.