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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

carlotta mariani
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Come sto? Bene, grazie. Se ho passato la giornata di ieri a rispondere così, non l'ho fatto per confermare l'immagine glaciale che il pubblico e i lettori hanno di me. Semplicemente a  me non è successo nulla né è accaduto qualcosa alla mia famiglia. Non ho visto la morte in faccia: magari l'ho avuta vicina e ripensando alla serata di giovedì, all'eco dei tre colpi di pistola sparati sul ballatoio di casa mia, mi pare di sentirne l'alito. La morte probabilmente, se le indagini confermeranno le supposizioni, mi ha sfiorato, ma non mi ha preso. Chi l'ha vista in faccia invece è il mio caposcorta, un ragazzo alto che insieme ad altri cinque o sei, a turni di due alla volta, mi segue da parecchio tempo. Ho perso il conto di quanto e per ricostruirlo ogni volta penso che mia figlia, la più piccola, aveva pochi mesi e ora  ha più di otto anni. Me lo ricordo ancora il dialogo con il questore di Milano, Vincenzo Buoncoraglio, che mi impose la tutela, costringendomi a camminare tra due poliziotti, come i delinquenti tradotti in cella e con la sola grazia di non avere le manette. Cosa ho fatto per meritarmi questo premio? Nulla, credo. O forse qualcosa di terribile. In questi anni, da direttore del Giornale prima, di Panorama e di Libero poi, ho sostenuto con passione le mie opinioni, senza tacerle mai né sulla carta né in tv. Per alcuni probabilmente questa è una colpa grave, imperdonabile, da pagarsi prima con i bossoli e le minacce di morte, poi le aggressioni fisiche e infine, forse, con qualcosa più di una intimidazione, un'azione vera, con tanto di agguato e pistola. Le indagini diranno cosa è successo. Ad ora pare che un uomo armato abbia atteso sul pianerottolo il mio ritorno a casa. Per fare cosa? Non lo so, posso solo immaginare che non volesse offrirmi fiori ma farmi pagare qualcosa, qualche frase, qualche articolo. Non è la prima volta che i giornalisti finiscono nel mirino e temo che non sarà l'ultima. Qui a fianco Giampaolo Pansa ricostruisce meglio di me, per averlo vissuto, il periodo in cui caddero Carlo Casalegno e Walter Tobagi e furono feriti Indro Montanelli e Vittorio Bruno. A colpirli furono le Brigate rosse, quelle che per qualcuno erano sedicenti e poi si rivelarono solo sanguinarie. Non sono in grado di sapere se stia tornando quel periodo, come molti ieri mi hanno chiesto,  e se i cronisti prima di scrivere debbano pensarci due volte, oppure guardarsi le spalle.  Né voglio accusare qualche collega o  politico di avere armato la mano del tizio che mi ha atteso sull'uscio di casa. Mi limito a osservare che il clima è mefitico e non da ora. Quando si sostiene che un giornalista è un servo, un cane, una prostituta, un leccaculo, uno che sguazza nella merda e opera nella fogna, certo poi non c'è da stupirsi se c'è chi mette in pratica il proposito di levare di mezzo un personaggio tanto spregevole. Se si conduce una campagna di delegittimazione e di diffamazione indicandoci al pubblico furore, negandoci ogni dignità, anche quella umana, non si può poi fingere di ignorare gli effetti collaterali, pena apparire ipocriti. Per quel che mi riguarda, comunque, continuerò a fare con serenità il mio mestiere e a raccontare ciò che vedo e penso. Quando entrai per la prima volta  in una redazione mi spiegarono che l'unico rischio da scongiurare era il buco in pagina e non in testa. Ma nonostante questo, assicuro a tutti i lettori, i quali affettuosamente ieri mi hanno espresso la loro solidarietà, che il pericolo non ci tapperà la bocca. Né a me né a Libero.

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