L'editoriale
di Franco Bechis
L'Italia ha 4213 suoi soldati in Afghanistan, mandati lì a rischiare la vita dopo l'attacco di Osama Bin Laden alle Torri Gemelle. Fu Silvio Berlusconi allora presidente del Consiglio a non esitare un istante ad aderire a quella richiesta degli Stati Uniti che erano stati colpiti al cuore insieme a tutto l'Occidente. Fu sempre Berlusconi a seguire gli Stati Uniti quando si trattò di inviare le truppe in Iraq. Insieme alla Gran Bretagna non c'è stato alleato più stretto degli Stati Uniti dell'Italia di Berlusconi. Non c'era bisogno della dichiarazione di affetto di Hilary Clinton per dimostrarlo: i fatti contano sempre più delle parole. Ma proprio in nome di questi fatti non può bastare una bicchierata davanti ai fotografi durante una riunione internazionale per riparare le ferite inferte non a Berlusconi, ma al Paese stesso in quei fonogrammi rivelati da Wikileaks e inviati dall'ambasciata americana di Roma e destinati alla segreteria di Stato a Washington. C'è stato chi ha riso e chi ci ha speculato sopra come un avvoltoio, leggendo delle feste selvagge e dei dubbi sulla salute del presidente del Consiglio italiano, o dell'infinita serie di pettegolezzi raccolta da e sui suoi collaboratori. Quelle minute che appartengono a tre diversi periodi (ambasciatore Ronald P. Spogli, reggente Elizabeth Dibble e ambasciatore David Thorne) assomigliano in effetti a una ingiallita minuta del Sifar o alle schede dell'archivio di Pio Pompa. Ma proprio per questo alla loro lettura non ce la si può cavare con un'alzata di spalle. Perché una cosa è evidente: la struttura diplomatica americana in Italia non è stata all'altezza del suo compito in questi anni, e il governo italiano non dovrebbe fare finta di non avere letto perdonando la marachella. NESSUN SERVETTO Un paese che ha offerto la vita dei suoi soldati anche di fronte a dubbi espliciti per la causa americana, non può accettare di essere trattato come una colonia-servetta dell'impero. Dispacci come quelli che abbiamo letto forse hanno traccia ben nota negli anni negli archivi delle ambasciate Usa nell'America centrale e latina, dove la realpolitik della segreteria di Stato aiutata dalla Cia faceva e disfaceva regimi a suo piacimento, insediando dittatori fantocci che poi magari venivano derisi nei fonogrammi con Washington. Ma l'Italia non è uno staterello satellite della colonizzazione americana dei tempi che furono. Con Berlusconi si è rivelato il secondo alleato degli Stati Uniti nella difesa e nella lotta al terrorismo, e come tutti gli altri paesi del mondo sta pagando ancora un prezzo economico altissimo alla crisi internazionale che fu innescata dalla follia della finanza americana. Non è accettabile che questo paese e questo governo possano essere trattati come è avvenuto in quei dispacci. È una ferita che non può essere sanata da una stretta di mano e da un sorriso della Clinton. Per difendere l'immagine non solo del suo governo, ma del paese, sarebbe necessario oggi un passo formale del premier con gli Stati Uniti per chiedere una riparazione sostanziale che non può passare per altre vie se non quelle di un cambio robusto nella struttura diplomatica di sede a Roma. Sarebbe un gesto forte, certo difficile da fare ora che il governo è atteso da una missione quasi impossibile come ottenere la fiducia delle Camere. Ma l'alzata di testa è necessaria anche per altri motivi, strettamente connessi con le rivelazioni di Wikileaks. Ci sono motivi di sostanza e di contenuto. Gli Stati Uniti non sono in grado di rinfacciare a chicchessia il rapporto con la Russia o con la Libia. Nel caso di Vladimir Putin non più di due settimane fa Barack Obama ha stretto non un banale accordo commerciale sul gas, ma un'intesa sulla difesa missilistica comune chiudendo anche il trattato Start sul disarmo nucleare. Gli Stati Uniti considerano Putin così affidabile da venire a patti con lui sulla questione più delicata che esista, e quindi non hanno alcun diritto di mettere bocca su un accordo economico che consente all'Italia di pagare un po' meno l'energia. Nel caso di Gheddafi l'Italia ha avuto lunghi contrasti che l'hanno danneggiata negli anni per essere fedele all'ostracismo americano. Solo quando questo è venuto meno e Gheddafi è stato riabilitato post Lokerbie, anche l'Italia si è mossa per difendere i suoi interessi come è giusto faccia un paese libero e sovrano. Ma non bastano le forme sopra citate e i contenuti appena esposti a obbligare Berlusconi a uno scatto di orgoglio, alzando la testa. C'è anche una questione rilevantissima di metodo. A una settimana circa dall'annuncio delle rilevazioni di Wikileaks è ormai lampante che quella prima interpretazione del governo italiano (la teoria del complotto) non fosse affatto una barzelletta. Solo gli stolti ormai possono credere che quella violazione del segreto americano sia stata possibile per l'abilità di qualche hacker. È evidente nella diffusione di quei documenti la manina di un regista esperto e sapiente. A livello internazionale si stanno destabilizzando- è evidente- gli Stati Uniti e soprattutto la loro politica estera che rischia di andare in frantumi su molti scacchieri mondiali (in primis il Medio Oriente). Molti si sono chiesti a chi giova tutto questo. La Turchia ha risposto secca: ad Israele. Nella risposta forse c'è un'antica inimicizia, ma non si può dire che sia del tutto priva di senso. Nel piccolo si sta destabilizzando anche l'Italia. Qui dire a chi giova è più semplice: a chi sta sfruttando quegli archivi alla Pio Pompa. Magari con qualche problema di coscienza da ieri per gente alla Pierluigi Bersani o alla Massimo D'Alema che si sono letti fra le minute i generosi e ingenui proclami di Berlusconi che garantiva l'ambasciatore Usa sulla loro serietà e affidabilità. Certo, per avere problemi di coscienza bisognerebbe averne una, e nel caso non è garantito affatto. Non ha nemmeno quel problema comunque Gianfranco Fini, l'altro beneficiario della destabilizzazione italiana provocata da Wikileaks. Da una vita i governi americani si preoccupano delle opposizioni interne di un paese quando hanno buoni rapporti con il governo in carica. E da sempre la diplomazia a stelle e strisce diffida di chi proviene dalla storia comunista. SPARITA LA SINISTRA Possibile che fra le notule della ambasciata Usa di Roma non ce ne fosse nemmeno una che si occupasse del Pd nelle varie sigle della sua storia? Possibile che non interessasse agli americani la presenza di ex comunisti nel governo di Romano Prodi? Eppure furono proprio loro (vi ricordate il caso Turigliatto?) a mettere in crisi dopo nemmeno un anno il governo bocciando la sua politica estera e l'alleanza con gli Usa nelle missioni internazionali. Possibile che occupandosi della politica estera italiana si passa ai raggi X premier e ministro degli esteri dell'attuale governo (Berlusconi e Franco Frattini) e invece a proposito del governo del 2004-2005 si citi solo e sempre il premier (sempre Berlusconi) e mai il suo ministro degli Esteri dell'epoca (era Fini)? No, che non è possibile. Quei documenti esistono, e parlano di Fini, di D'Alema, di Prodi, di Bertinotti e dei comunisti italiani. Ma la manina che li sta muovendo con sapienza li tiene blindati nel cassetto. È probabile che i calcoli di quella manina alla fine si rivelino errati. Anche l'Italia è fatta di suoi poteri interni, più o meno forti, più o meno nobili. Tra i loro desideri potrebbe esserci anche quello di chiudere l'era Berlusconi. E fin qui sono allineati con la manina. Ma è difficile pensare che lo vogliano fare se l'alternativa è affidare il paese a un politico di così alta levatura e indipendenza da essersi mostrato come un Gaucci ostaggio imbelle di una famigliola come quella dei Tullianos. E qui le strade con la manina si divideranno. Proprio per questo è necessario che senza indugi oggi Berlusconi alzi la testa di fronte a Wikileaks, prenda di petto la trama che lo sta avvolgendo e non ne resti in balìa. Non lo deve fare per sé, ma per questo Paese, per la dignità degli italiani e per il rispetto che si deve a una democrazia che in troppi ora calpestano.