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L'editoriale

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di Massimo De Manzoni

Giulio Bucchi
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DI MASSIMO DE MANZONI - Pietra tombale. «Gheddafi non ha più il controllo del Paese», ha detto ieri Berlusconi subito prima di telefonare al segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon. «Se siamo tutti d'accordo, possiamo mettere fine a un bagno di sangue devastante e sostenere il popolo libico». Parole chiare, nette, rafforzate da quelle del ministro della Difesa La Russa: «Il trattato con la Libia di fatto non c'è più». Parole che nel circo dei nostri talk show, dove tutti i politici di sinistra e parecchi giornalisti d'area da qualche giorno sembrano essersi trasformati in cronometristi («ha condannato per prima la Francia, seguita da Gran Bretagna e Stati Uniti, l'Italia è arrivata con oltre sette minuti di distacco»),  verranno bollate come tardive. Ovviamente non è così. Questa non è una corsa: è una tragedia nella quale tutte le variabili vanno calcolate con attenzione prima di fare mosse che potrebbero rivelarsi fatali. Ai nostri giudici di gara forse è sfuggito il comportamento di uno dei loro eroi, Barack Obama. Il quale, dopo le prese di posizione schizofreniche assunte nei primi giorni della crisi egiziana, con Tripoli ha tenuto un profilo basso fino al preciso momento in cui l'ultimo americano ha lasciato la Libia. Solo dopo aver avuto la certezza che non si sarebbe ripetuto il dramma degli ostaggi già vissuto a Teheran nel 1981, il presidente americano ha alzato i toni. A prudenza ancor maggiore era tenuta l'Italia, con molti più cittadini e molti più interessi strategici sul suolo nordafricano. Anzi, a voler essere pignoli, restano ancora una ventina di italiani “intrappolati” nel deserto. Neanche ieri è stato possibile recuperarli,  ma la relativa sicurezza che Gheddafi non sia più in grado di ordinare rappresaglie ha indotto a rompere gli indugi. La denuncia del trattato di cooperazione italo-libico da parte del ministro della Difesa è tutt'altro che una semplice presa d'atto della situazione: è l'annuncio che l'Italia non si ritiene più legata ai vincoli di non ingerenza e non uso della forza che l'accordo contemplava.  È il segnale che se la comunità internazionale opterà per un intervento, saremo in prima linea, come del resto è stato già stabilito nei giorni scorsi durante le telefonate tra Berlusconi, Obama e il premier britannico Cameron. «Non possiamo rimanere spettatori», ha sottolineato il presidente del Consiglio. Non siamo fuori dalla gara. Almeno non da quella che si corre sotto gli occhi di tutti. Poi, come accennavamo ieri, c'è un'altra,   partita in corso: quella che stanno giocando i servizi segreti. E qui non possiamo che sperare che i dissennati attacchi di certa politica e di certa magistratura abbiano lasciato all'Italia un'intelligence degna di questo nome.  Anche se purtroppo c'è da dubitarne.

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