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L'editoriale

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di Vittorio Feltri

domenico d'alessandro
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Vorrei scrivere un articolo sulla giustizia, ma temo di mettere in fuga i lettori. Benché di stretta attualità, l'argomento è dei più noiosi e richiede un minimo di infarinatura nel campo del diritto e roba del genere. Anche il linguaggio usato dagli esperti è iniziatico, ostico per non dire incomprensibile. Un avvocato o un magistrato, per esempio, non dice che una cosa è stata realizzata, ma che è stata posta in essere. Un lessico che fa venire i nervi. Ciò nonostante, la maggioranza dei cittadini - risulta dai sondaggi - è ora consapevole che l'apparato giudiziario è un disastro. Lo ha capito non perché glielo abbiano detto Silvio Berlusconi, Alfano e compagnia pidiellina, ma perché ha sperimentato direttamente o indirettamente il cattivo funzionamento dei tribunali e delle Procure della Repubblica: processi interminabili, indagini pressappochistiche e lacunose, uso improvvido della carcerazione cautelare. Quando un italiano incappa nella giustizia spesso ne viene stritolato sia in caso di questioni penali sia civili. Ad aprire entrambi gli occhi alla gente non è stata, come si ama ricordare nelle polemiche (trite) sul tema, Tangentopoli, bensì la vicenda tragica di Enzo Tortora, noto presentatore e giornalista televisivo, che fu arrestato negli anni Ottanta per spaccio di droga, esibito con le manette su ogni telegiornale, tenuto in galera mesi e mesi, condannato in primo grado e, infine, assolto per non aver commesso il fatto. Episodi del genere si contano a bizzeffe, ma quello di Tortora - dato il personaggio - fece scalpore e le coscienze si svegliarono. I radicali di Marco Pannella intuirono la gravità del problema e lo cavalcarono con la consueta abilità, promuovendo un referendum allo scopo di introdurre la responsabilità civile dei giudici. Vinsero, ma inutilmente perché con una leggina ad hoc il contenuto del plebiscito venne azzerato. Infatti le toghe hanno continuato a non pagare per i propri errori: al loro posto ha semmai sborsato lo Stato, cioè noi, al solito mazziati e cornuti. Da lustri, decenni si parla della necessità di una riforma per adeguare i tempi della giustizia a quelli della vita contemporanea, ma nessuno è stato capace di andare oltre le buone intenzioni. Per vari motivi: la magistratura si sente intoccabile e considera con fastidio ogni intromissione nel proprio lavoro, quindi osteggia qualsiasi novità che la riguardi; la sinistra, a torto o a ragione, vede nelle Procure potenziali alleate disposte a colpire con soddisfazione i propri avversari, sicché boccia sistematicamente le iniziative tese a modificare lo status quo. Sicché, perfino Berlusconi - che pure ha interessi personali in materia - non è mai riuscito a battere chiodo. Ci ha provato e ci prova ancora, ma non sappiamo con quante probabilità di successo. La riforma recentemente passata in Consiglio dei ministri è buona o cattiva? Per i giudici è un orrore, e ci avrebbe stupito un parere diverso. A occhio e croce, anche stavolta non si combinerà nulla. Pecchiamo di pessimismo? Non credo si tratti di questo. È che l'iter parlamentare è troppo lungo se rapportato alle aspettative di durata del Parlamento. Speriamo di sbagliare. In attesa della verifica ci permettiamo di dare un suggerimento in tre punti alla maggioranza che, ne siamo certi, sarebbero approvati anche dalla opposizione onde dare luogo a una riforma condivisa, come tutti auspicano, compresi i magistrati pendenti a sinistra. Tre punti che si ispirano a princìpi di libertà e di giustizia. Immagino, o meglio spero, che trovino - anche grazie alla brevità dell'assunto - il consenso dei lettori normalmente inclini a diffidare di dissertazioni arzigogolate o astruse. Uno.  Un cittadino italiano che venga arrestato non può per più di dieci giorni essere tenuto all'oscuro sulle cause del suo arresto, ma deve entro dieci giorni essere condotto dinanzi al suo giudice naturale, e riottenere la sua libertà anche se provvisoria. Due.  L'arresto preventivo (o cautelare) è mantenuto solo per gli accusati di colpe gravissime - quando gli indizi della colpevolezza siano tali da far apparire probabilissima la condanna - e non deve essere prolungato per un termine superiore alla misura minima della condanna. Tre.  Gli agenti, i giudici, i carcerieri, per colpa dei quali un cittadino viene arbitrariamente privato della libertà, sono tenuti a pagare al malcapitato una indennità in solido ciascuno di centomila euro, da scontarsi in tanti giorni di prigione in caso di insolvibilità, con iscrizione nella fedina penale, rimozione dall'impiego e perdita dei diritti civili per cinque anni. Chi, di sinistra o di destra, avesse da eccepire su quanto sopra esposto, che non è tutta farina del nostro sacco, si manifesti: avrà ospitalità su queste pagine. Posso aggiungere che Berlusconi è d'accordo con noi. Che ne pensano i colleghi del Fatto quotidiano, dell'Unità, de la Repubblica e del Manifesto?

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