L'editoriale

Andrea Tempestini

Non capita tutti i giorni che un presidente del Consiglio entri come imputato in un’aula di tribunale. Ieri è capitato. Si celebrava il processo sui diritti tivù Mediaset, una storia complessa per non dire pasticciata di cui sarà difficile per i giudici trovare il bandolo. Se non lo troveranno, la giustizia non farà una bella figura. Molti italiani si sono persuasi che essa ce l’abbia con il leader del centrodestra, e agisca più per motivi politici che giudiziari: in caso di assoluzione, segnerebbero un punto a favore della loro tesi. Se invece le toghe risalissero a quel bandolo, non vorremmo essere nei panni del premier condannato: sarebbe coperto di insulti per la gioia di Santoro, Floris eccetera, ben lieti, dopo avergli sparato per anni a salve, di poter finalmente riempirlo di piombo. Entrambe le ipotesi porterebbero a un solo risultato: lo sputtanamento del nostro già sputtanatissimo Paese. Tant’è. Berlusconi è giunto a Palazzo di giustizia verso le 9.30 in automobile: sirene spente, scorta tanto numerosa quanto silenziosa. La strategia era quella di non suscitare clamore almeno fuori dell’edificio marmoreo, dato che nella zona, essendo stata presidiata, c’era già abbastanza casino e infuriava il traffico deviato di qua e di là per ragioni di sicurezza e roba simile. L’Audi blu presidenziale ha percorso un tratto di via Freguglia, una laterale poco battuta. L’udienza si è svolta nei locali della Corte d’Assise anziché in quelli del tribunale, insufficienti a contenere il pubblico, per lo più composto da giornalisti inquieti, ansiosi di assistere all’ingresso di Silvio (e magari a un suo show). Sicché quando questi è comparso è stato subito circondato dall’orda dei cronisti. I più svelti e fortunati hanno avuto il privilegio (capirai...) di un faccia a faccia con lui. Il gruppo, timoroso di perdere qualche sua battuta coi colleghi, è balzato sulle panche protendendo microfoni e telefonini verso la bocca oracolare dell’imputato eccellente, il quale nell’assalto ha rischiato di ingoiare qualche cellulare maneggiato con scarsa cautela dagli esagitati reporter. Qui occorre fare un distinguo. I giornalisti anziani non si sono scomposti, consapevoli che è inutile agitarsi in circostanze del genere, perché le notizie alla fine sono a disposizione di chiunque. Lo insegna l’esperienza. Mentre l’ultima leva della categoria scribi e affini (riconoscibile non solo dall’età, ma anche dagli abiti stile noglobal) forse contagiata dall’ambiente che è costretta a frequentare allo scopo di resocontare le vicende giudiziarie, ha assunto i toni e i modi di fare dei Pm più aggressivi. Nel porre domande al Cavaliere ha così dato l’impressione di volerlo incastrare a ogni costo. Questo è un vizietto antico della corporazione: già negli anni Settanta, i neo iscritti all’Ordine erano convinti che per essere bravi dovessero lanciare interrogativi provocatori. Che poi, di solito, erano screanzati e basta. Comunque la scena più interessante è stata animata proprio dai rappresentanti tecnologizzati dell’informazione, che se non altro hanno mostrato energia e vitalità. L’udienza viceversa è stata un mortorio. L’atmosfera da camera ardente sarebbe stata perfetta se ci fosse stato il feretro, anche piccolo purché autentico; in mancanza del quale ci siamo accontentati dei testimoni che hanno esalato le loro deposizioni con compostezza consona al luogo. Nessun brivido. Anzi, un caldo asfissiante che ha incoraggiato una signora seduta vicino a me a ridurre al minimo il proprio abbigliamento: jeans a vita bassissima, più bassa degli slip che spuntavano dalla cintura insieme con l’inizio del solco gluteo. Lo spettacolo sarebbe piaciuto a Berlusconi se non gli fosse stato precluso dal fatto di sedere sette o otto file più avanti rispetto alla dama. Sarà per un’altra volta. L’audizione dei testi non ha fatto emergere alcunché di sensazionale. Ha confermato che il reato, ammesso e non concesso sia stato consumato, non è ancora stato provato. E non si comprende come possa esserlo nel corso del processo, considerata l’inesistenza di una movimentazione di denaro tracciabile. Si dice che siano stati costituiti dei fondi neri secondo malcostume di varie aziende. Come? Mediaset comprava materiale audiovisivo da un tizio, Frank Agrama, il quale applicava prezzi superiori a quelli di mercato e avrebbe spartito il maggiore utile con l’acquirente, cioè la stessa Mediaset che era sua socia. Mi chiedo quale vantaggio avesse Berlusconi a fare a metà del guadagno con Agrama quando avrebbe avuto l’opportunità di risparmiare un tot, e quel tot versarlo allo Stato anziché al socio occulto, evitandosi grane giudiziarie e trattenendo in Italia, in chiaro, le stesse somme incassate di “sfroso”. Ignoro se la mia interpretazione stia in piedi o caschi da tutte le parti; ma è un dato che i fondi neri non sono saltati fuori. E se non c’è il corpo del reato come si fa a contestare il reato? Boh! Sarò tonto io. Nell’eventualità, qualcuno mi dovrebbe spiegare, se imbroglio c’è stato, perché ne debba rispondere il Cavaliere che stava al vertice dell’azienda, quindi, verosimilmente, impegnato in operazioni più importanti della torta dei diritti, di cui semmai si sarà occupato qualche dirigente di gerarchia inferiore a quella del presidente. Giova rammentare, a tal proposito, che ai tempi di tangentopoli, la Fiat fu messa sotto inchiesta per mazzette eppure il capintesta, Gianni Agnelli, non venne sfiorato dalla giustizia in quanto “poteva non sapere”. Perché - all’opposto - Berlusconi “non poteva non sapere”? C’è solo un “non” di troppo o un doppiopesismo che rende la giustizia niente affatto uguale per tutti? Propenderei per la seconda cosa. Anche perché, ad Avvocato deceduto, si è appreso che questi aveva esportato denaro (parecchio) all’estero, presumo denaro nero, cioè sottratto agli azionisti e non indicato in bilancio. Per l’amor di Dio, può darsi che ciò sia avvenuto all’insaputa del Signor Fiat, perché a una certa età, se si è foderati di quattrini, non ci si interroga sulla provenienza dei medesimi. La realtà è che lui non è stato perseguito, mentre Silvio sì, pur in assenza del malloppo. Come si giustifica la diversità di trattamento? Perché Silvio è in politica e l’altro no? Occhio, guardate che l’Avvocato era senatore a vita. Nominato tale per quali meriti? Non certo l’evasione fiscale. Dulcis in fundo. Il Cavaliere, al termine dell’udienza mattutina, non ha perso l’occasione per tenere un estemporaneo comizietto ai propri fans. La sua frase più divertente: «Pagavo Ruby perché non si prostituisse». Ma va' là?