L'editoriale

Andrea Tempestini

Che Massimo Ciancimino si fosse trasformato in un jukebox disposto a suonare qualsiasi musica gli fosse richiesta, per me era cosa nota. Essendone stato lo scopritore, o meglio il primo che si sia dato pena di stare ad ascoltare le sue storie, avevo capito da un pezzo che la parte più eclatante di quel che rivelava erano balle sesquipedali. Il figlio piccolo dell’ex sindaco di Palermo  si era specializzato in un genere molto richiesto, ovvero le accuse a Berlusconi. Sicché, appena ha cominciato a cantare contro il Cavaliere, tutte le Procure hanno fatto a gara nell’applaudirlo e l’erede di don Vito è stato issato sugli altari, in particolare quelli televisivi, diventando una star quasi fissa di Annozero. Ora che è stato arrestato per aver falsificato dei documenti allo scopo di calunniare l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, si capisce perché oltre un anno fa, proprio su Libero, scrissi un articolo che si concludeva nel seguente modo: «Egli spera in un salvacondotto dei giudici che gli consenta di mettere al riparo il patrimonio senza doverlo restituire allo Stato. In cambio è pronto a raccontare tutto quello che sa di don Vito e dei suoi rapporti con la mafia. E probabilmente anche quello che non sa. Anzi, quello che non sa è ciò che gli viene meglio». Ammetto che l’autocitazione è inelegante, ma stavolta i lettori mi perdoneranno. Ricordare il pezzo del 3 febbraio 2010 è indispensabile per capire che era tutto già noto, comprese le balle, cui solo qualche toga sempre in allerta quando si parla di Berlusconi poteva dar credito. Ciancimino si era rivolto a me nel 2007, dopo aver subìto una sentenza per ricettazione. Prima d’allora non l’avevo mai visto, ma lui aveva pregato la mia segreteria di fissargli un appuntamento: in cambio avrebbe rivelato cose interessanti. Capii subito che il suo problema era il tesoro accumulato dal padre negli anni in cui era in società con la mafia e poi nascosto in Svizzera o Lussemburgo. Massimo avrebbe voluto poterne disporre a piacimento per dedicarsi alla bella vita e invece un paio di pm in gonnella lo avevano pizzicato mentre si comprava uno yacht e oltre a farlo condannare gli avevano imposto il confino e ritirato pure il passaporto. Un bel guaio per uno costretto ad attingere a un forziere estero. Ciancimino si lagnava della disparità di trattamento di cui, a suo dire, avevano goduto alcuni magistrati vicini alle cosche. Diceva: colpiscono me che non ho fatto nulla e mandano impuniti i loro colleghi. E a sostegno delle sue tesi esibiva appunti del padre o per lo meno scritti spacciati come tali. Fra le mille chiacchiere c’erano pure alcuni aneddoti divertenti, ad esempio gli incontri tra un Provenzano, che si spacciava per l’ingegner Lo Verde, e don Vito oltre ai guai provocati dal portare un cognome ingombrante come Ciancimino. Sugli aneddoti feci scrivere un pezzo a un collega, omettendo le accuse ai giudici per le quali egli non esibiva alcuna prova a sostegno. In quelle conversazioni - furono diverse - mai, ripeto mai, il figlio dell’ex sindaco mi parlò di un Berlusconi o un Dell’Utri in rapporti con la mafia. Eppure, avesse avuto la volontà di vuotare il sacco, quella sarebbe stata la prima notizia da riferire. E se non avesse voluto raccontarla me avrebbe potuto rivelarla ai giornalisti della Stampa o dell’Espresso con cui era in contatto. Ciancimino al contrario si tenne tutto per sé e al Cavaliere iniziò a fare cenno parecchio tempo dopo essere stato convocato dai pm di Palermo, proprio in seguito alla nostra intervista. Il cognome del premier è la parola magica che può aprire tante porte e sospetto che il figliolo del sindaco mafioso abbia ritenuto potesse essere utile anche per schiudere il forziere estero, cioè per consentirgli di recuperare senza noie con la giustizia il denaro accumulato dal padre e custodito in gran segreto oltre confine. Del resto, che il suo problema fossero i soldi risultò evidente anche nei mesi scorsi, allorquando un’intercettazione occasionale, cioè non disposta contro di lui ma ordinata per ascoltare un riciclatore professionale, lo beccò intento a cambiare in nero decine di migliaia di euro. Come un tale soggetto di dubbia credibilità sia diventato un oracolo delle Procure e della sinistra è un mistero. O forse no. Sta di fatto che Massimo Ciancimino si è trasformato in un testimone di giustizia, sentito e riverito in diversi processi, non ultimi quelli televisivi di Michele Santoro. Francesco La Licata, Sandro Ruotolo, Sandra Amurri e tanti altri illustri colleghi della stampa progressista si sono prestati a intervistarlo in pubblico nelle località turistiche. Il Pd lo ha voluto come ospite fisso nelle sue feste dell’Unità, da Imola a Bologna. E il festival internazionale di giornalismo che si tiene a Perugia lo ha messo addirittura in cartellone fra Saviano e Scalfari, definendolo sul suo sito un testimone d’eccezione. Prima d’accreditarlo di tanta autorevolezza, nessuno ovviamente si era preoccupato di interrogarsi sull’attendibilità delle sue carte. Garantiva per lui l’essersi schierato contro Berlusconi. Come in tanti altri casi, basta quello per garantirsi il futuro. E, non fosse scivolato su un’accusa di troppo a De Gennaro, probabilmente anche il figlio di don Vito ce l’avrebbe fatta. In barba alla giustizia. O, forse, proprio con il suo aiuto.