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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Che tre quarti dei ministri, o forse sarebbe più esatto dire venti ventunesimi  cioè tutti  escluso l'interessato, detestino il collega Tremonti, non c'era bisogno che ce lo rivelasse Giancarlo Galan con un'apposita intervista. Chi può trovare amabile un tizio che, disponendo della borsa, se la tiene ben stretta e lesina ogni aiuto ai  propri compagni di viaggio nonostante le suppliche? Il problema è che la saccoccia tenuta così saldamente da  Giulio è vuota. Al di là del carattere dell'uomo, certamente non dei più semplici, è il ruolo a rendere il responsabile dell'Economia tutt'altro che simpatico. A lui tocca  far quadrare i conti ed essendo il suo mestiere, il commercialista di Sondrio -  così lo chiamano perfidamente i  nemici - lo fa con scrupolo e dedizione, rispondendo picche a chiunque gli chieda di aprire il borsellino, anche se la sollecitazione gli proviene da Berlusconi. In un Paese dove le campagne elettorali  non si fanno parlando di programmi e strategie per il futuro, ma elargendo fondi  e regalie per il subito, figuratevi la tragedia. Da antipatico che già era, Tremonti  è finito per essere odiato. Potessero lo sostituirebbero domattina e non escludo che qualcuno abbia studiato la pratica, rinviando il progetto soltanto per l'assenza di possibili sostituti che avessero i requisiti minimi per assumere il difficile incarico. Nella testa degli avversari più irriducibili, il ministro di via XX Settembre è un ostacolo da rimuovere in fretta se si intende evitare una sconfitta alle prossime elezioni  amministrative, giudicate un termometro importante per i destini del governo. L'approssimarsi dell'apertura dei seggi ha portato dunque a un intensificarsi degli attacchi, l'ultimo dei quali appunto da parte del responsabile dei Beni culturali, ma Tremonti  non pare intenzionato a muoversi di un millimetro. Anzi, da quel che risulta, più gli sparano contro e più lui tira diritto. In realtà ciò di cui non paiono rendersi conto i nemici del guardiano dell'Economia è che anche Giulio ha le mani legate quanto loro. Se non scuce un euro non è per  odiosa taccagneria, ma perché non gli è consentito.  Nessuno infatti ricorda che non più tardi di dieci giorni fa il Consiglio dei ministri al completo ha deliberato un Documento di economia e finanza che rappresenta la tomba per ogni legge di spesa. E al testo si è arrivati sulla scorta di un Patto per l'Euro firmato venti giorni prima da tutti i capi di governo dei Paesi europei, anche quello senza che nessuno battesse ciglio. Nell'accordo si sancivano non solo nuovi indirizzi in materia economica, ma pure una devoluzione di potere politico a favore della Ue. L'argomento sarà forse parso un po' astruso ai convenuti di Palazzo Chigi e probabilmente tale lo giudicheranno anche i lettori, ma in pratica con quell'atto si è dato a Bruxelles maggior potere. Non soltanto sui conti,  ma pure su tutte le riforme che hanno un'incidenza economica. Distratti dalle polemiche di giornata, i più non si sono accorti che così facendo nessuno stanziamento può sfuggire al controllo e che del bilancio dello     Stato non è consento disporre a piacimento. I tempi sono cambiati, pare ami ripetere il ministro, oggi la politica non si fa con il deficit pubblico, perché un mese fa con il Patto per l'Europa ci siamo impegnati a introdurre nella Costituzione il vincolo della disciplina di bilancio. Le riforme e gli incentivi non sono dunque  ammessi se non compatibili con il programma di stabilità. Sicché non si può più fare quello che si è fatto fino a ieri e cioè approvare le leggi segnando in bilancio, che poi con qualcosa le si ripagherà. O i soldi sono in cassa o nisba, si è costretti a rinunciare. I colleghi di Tremonti in tal modo si sono auto condannati a tirare la cinghia e non possono pretendere di allentarla. Già adesso noi italiani siamo guardati con sospetto, perché siamo una famiglia spendacciona, che guadagna 100 e spende 104,5 e dunque è costretta ogni anno a chiedere un prestito di 4,5. Ma ci azzardassimo a dilapidare di più, ci verrebbero chiusi i rubinetti. Avendo l'Europa dichiarato guerra al deficit, anche  noi dobbiamo adeguarci, pena l'esclusione dal club con le inevitabili conseguenze che tutti possono immaginare. Se questa è la situazione, l'idea coltivata da alcuni ministri di usare la spesa pubblica come motore dello sviluppo è una bischerata. Così come fessa è la proposta di iscrivere a bilancio alcune operazioni di finanza creativa. Dalle case popolari non si possono ricavare soldi per la crescita, innanzitutto perché quegli alloggi non sono proprietà dello Stato bensì delle Regioni, e poi perché il gettito sarebbe incerto. Né si potrebbe far di meglio con le privatizzazioni, le quali non genererebbero flussi importanti -  giacché ormai lo Stato possiede solo il 30 % di Eni, Enel e Finmeccanica - ma comporterebbero soltanto la rinuncia di una presenza pubblica in settori strategici. La scorciatoia di attingere a piene mani nella cassa o di liquidare la poca argenteria rimasta non è dunque praticabile. Resta l'unica via d'uscita di tagliare le spese, riducendo tutto ciò che si può. Tremonti non ha in testa l'idea di sforbiciare il welfare, ma di colpire i costi artificiali. La burocrazia, le regole d'appalto che fanno lievitare gli investimenti pubblici, gli adempimenti che ingessano le imprese: ecco dove si possono trovare risorse senza spendere. Sembreranno agli inesperti cose poco concrete, parole belle ma denaro scarso: in realtà rimettendo in ordine la macchina pubblica si può guadagnare.  Prendete per esempio la giustizia, ossia un apparato che con i suoi ritardi pesa sulle imprese e sulla vita dei cittadini. Il 25 % delle cause civili che intasano i Tribunali riguardano l'Inps: processi in cui il valore della lite è inferiore al costo che sopporta lo Stato per istruire il procedimento. Non sarebbe meglio trovare una soluzione senza ricorrere al giudice? Costerebbe meno e alleggerirebbe il peso dei processi arretrati. Oppure provare a mettere ordine nelle concessioni di spiagge e proprietà demaniali: ora allo Stato rendono nulla, ma in prospettiva potrebbero generare soldi.  È su questo che Tremonti  sta lavorando. Ovviamente non è una robetta che si fa in due minuti, anche perché come s'è detto molti colleghi gli mettono i bastoni fra le ruote. Ma se regge e si rassegna a fare il parafulmine, forse prima della fine della legislatura può riuscire anche a regalarci una limatina alle tasse. E ciò lo rivaluterebbe anche agli occhi di chi oggi lo vorrebbe licenziare.

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