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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Pochi lo ricordano, ma il primo governo Berlusconi le penne le lasciò sulla riforma delle pensioni. La Lega di Bossi staccò la spina senza pensarci troppo appena capì che i suoi elettori erano contrari a qualsiasi innalzamento dell'età a cui ci si ritira dal lavoro. Certo, prima di far cadere un Cavaliere già in bilico per l'avviso di garanzia della procura di Milano, il Senatur si premurò che Scalfaro non sciogliesse le Camere e dunque che non ci fossero elezioni. Sta di fatto che se il primo governo di Silvio tirò le cuoia in appena sei mesi, lo si deve al progetto di ritoccare il sistema previdenziale. Se lo rammento è perché non vorrei che la storia si ripetesse. In un periodo in cui tutti si trasformano in apprendisti stregoni, suggerendo tagli e misure per fare quadrare i conti, anzi, per trovare dei soldi con cui ridurre le tasse, il rischio di uno scivolone è in agguato.  Non a caso il capo del Carroccio ha già messo le mani avanti: le pensioni non si toccano. Sottinteso: e chi le tocca muore. Molto probabilmente non si metterà mano neppure al ticket sul pronto soccorso, ipotesi circolata ieri a margine della riunione del Consiglio dei ministri, e a molti altri interventi di cui  in queste ore si legge sui giornali e sui siti web. La verità è che la manovra, quella che dovrebbe raddrizzare la barca italiana nella tempesta finanziaria, è ancora in alto mare. La riunione di ieri è praticamente servita a nulla, se non a ribadire che la correzione dei conti sarà di oltre 40 miliardi di euro, otto decimi dei quali a carico del 2013, cioè dell'anno in cui si concluderà la legislatura. Per ora si va avanti così, senza tagli ma senza neppure l'ombra di un alleggerimento del carico fiscale. Né per le persone fisiche, ma neppure per le aziende. I tre scaglioni? L'Irpef al 20 per cento per chi guadagna meno? Tassazione massima al 40 per cento? Per ora rimangono un progetto. Anzi, un'aspirazione. E forse non poteva che essere così, perché, come ripete fino alla noia il ministro - non si sa per quanto - Giulio Tremonti, i soldi non ci sono e vista la situazione  il taglio delle imposte non si può fare finanziandolo con il debito pubblico, pena avviarsi neppure troppo lentamente verso la bancarotta. Risultato, nonostante l'insoddisfazione della maggioranza che sostiene il governo, si sta fermi, senza fare nulla, se non una sforbiciata agli stipendi dei ministri, i quali dal primo luglio pare siano intenzionati a rinunciare agli emolumenti, e una radicale limata dei compensi della Casta, ovvero di parlamentari, consiglieri regionali e comunali, oltre che funzionari dello Stato. E le riduzioni della spesa, la lotta agli sprechi? Anche quella rinviata a data da destinarsi. E molto probabilmente anche in questo caso non poteva che essere così. Come ha spiegato ieri sulla Stampa Luca Ricolfi i tagli non si possono realizzare a capocchia e se li si vuol fare intelligenti ci vuole tempo, altrimenti si rischia che finiscano come le bombe - pure quelle intelligenti - cioè facciano un certo numero di vittime collaterali. Incaricato dal presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota, di individuare le spese inutili della sanità locale, il professore, pur stimando di poter far risparmiare un miliardo di euro al governatore, si è reso conto che le riduzioni selettive non si fanno in quattro e quattr'otto, ma ci vuole tempo. Due anni e più e oltre a ciò bisogna essere pronti a sopportare le inevitabili proteste di ogni categoria sfiorata dal provvedimento. Enti, associazioni, sindacati che si scatenano contro il governo, organizzando manifestazioni e contestazioni. Scrive Ricolfi: le misure verrebbero contestate con l'accusa di essere «macelleria sociale», di attaccare il welfare e le conquiste dei lavoratori.  Risultato? Gli amministratori si spaventerebbero e, pensando alle elezioni che si avvicinano, farebbero marcia indietro. Esattamente come il governo sulle pensioni, sul pubblico impiego e sugli enti inutili. Tagliare è insomma un lavoro ingrato, che richiede pazienza e soprattutto fermezza. E questi, a quanto pare non sono periodi in cui né l'una né l'altra abbondino. Per vedere davvero qualcosa che si muove, toccherà dunque aspettare. Speriamo solo che a forza di rinviare le decisioni che si dovrebbero prendere non ci aspetti un destino simile a quello della Grecia.

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