L'editoriale

Giulio Bucchi

DI FILIPPO FACCI - Brutti segni. Il primo: Filippo Penati ha scelto come avvocato Nerio Diodà, nel 1992 difensore di Mario Chiesa, cioè la palla di neve che divenne valanga. Secondo segno: Penati nega ogni addebito, mentre il conto del Lussemburgo in cui sarebbero transitati i soldi galeotti si chiama così: Pinocchio. Terzo: Penati è già stato mollato dall’amico Gad Lerner, uno che non ti molla mai per caso; il giornalista, che già scaricò l’amico e collaboratore Renato Farina quando ebbe guai giudiziari, ha scritto un puntuto editoriale su Vanity Fair («Penati deve spiegare il suo operato», nonché «lasciare l’incarico istituzionale di vicepresidente del Consiglio regionale») e poi ha vergato anche un papiro su Repubblica: «La mazzata che si abbatte su Penati segna un brusco risveglio dall’illusione che la vittoria elettorale del centrosinistra, e il lusinghiero risultato conseguito dal suo partito maggiore, potessero esentarlo dal fare i conti con la stagione della malapolitica». Quarto segno: sul blog di Francesco Costa, giornalista de l’Unità e de Il Post, già collaboratore di Veltroni in campagna elettorale, si possono leggere commenti come questo: «Io sono di Sesto San Giovanni e ho sempre votato a sinistra. Coltivo un sogno: vedere Penati in galera che divide la stessa cella con Oldrini (Giorgio, sindaco di Sesto, ndr). Perché vedi, quando un progetto resta fermo per 16 anni senza che nessuno sappia perché, i casi sono due: o gli amministratori sono corrotti o sono incapaci. Non c’è una terza possibilità. E a livello di cosa sono gli amministratori a Sesto, di quello che si vede, ci sarebbe quasi da sperare che siano corrotti. Perché altrimenti vuol dire che sono totalmente, irrimediabilmente incapaci. Ma probabilmente, molto probabilmente, direi al 99 per cento, sono tutte e due le cose». Il «progetto» dovrebbe essere quello del recupero dell’area Falck: fu appunto Penati, da sindaco di Sesto, a gestire la destinazione delle aree industriali dismesse.   Ma il segno peggiore - il quinto - è l’ennesima e ormai penosa rivendicazione, fatta da Filippo Penati, di una diversità comunista: e scriviamo «comunista» (non «di sinistra») perché stiamo parlando proprio di ex comunisti orgogliosi dell’ex Stalingrado d’Italia, del ceto politico sindacale che a Sesto partorì tra altri Fausto Bertinotti, Armando Cossutta, Sergio Cofferati e quell’Antonio Pizzinato - lo ricordava ieri il Corriere - che ancora negli anni Ottanta leggeva la Pravda come primo giornale. Una diversità comunista suonata come un disco rotto - di vinile, anzi di bachelite, nell’era del cd - e rivendicata anche da un titolo di Repubblica di ieri: «Lascio per dimostrare che noi non siamo uguali agli altri». Firmato Filippo Penati. Cioè: a 22 anni da «Palombella Rossa» di Nanni Moretti («perché siamo uguali, ma siamo diversi») la difesa politica dell’ex presidente della Provincia è una caricatura della caricatura: «C’è uno stile che va salvaguardato... È importante che alla gente arrivi il messaggio che noi non siamo uguali agli altri, se uno ti vota deve sapere che tu sei una cosa e non un’altra». E come no. È forte la tentazione di citargli i recenti 35 arrestati e 400 indagati del Pd (vedi Libero di ieri) ma la verità è che le citazioni più ridicole, Penati, se le fa da solo: «Quando ci sono dei cittadini che ti hanno votato, hai il dovere di fare un passo indietro». Un passo indietro che avrebbe fatto di sua iniziativa - a sentir Penati - mentre vari compagni gli strappavano la camicia per convincerlo a non farlo: e si parla, attenzione, di una misera autosopensione «dalle funzioni» che in pratica gli lascia seggio, auto blu e stipendio. E che se li tenga pure, è innocente sino a prova contraria: ma, a margine della diversità rivendicata, suona tutto un po’ stucchevole. L’esempio comunque viene dall’alto. Penati, il più influente fra i dirigenti del Pd lombardo, è uomo di Pierluigi Bersani di cui è stato capo della segreteria. E disse proprio Bersani, nel febbraio scorso, mentre a Bologna - altra storica roccaforte - impazzava il caso di Flavio Delbono, sindaco  poi dimissionario: «Da noi c’è un civismo che non tollera ombre... Un’analisi onesta non può non partire da questa colossale differenza di comportamenti... La cosa più importante è cosa fai, come ti comporti, come reagisci, come fai vedere che noi non siamo loro». Aggiungeva su l’Unità Mirko Divani, il manager bolognese che aveva dato il famoso bancomat a Delbono: «Noi siamo gente cresciuta alla vecchia maniera, ci possiamo permettere di fare la morale agli altri». Però anche le prime testimonianze delle inchieste, pur tutte da dimostrare, parlano di cose fatte alla vecchia, vecchissima maniera. Si vedrà.