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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Nella Costituzione è scritto che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma visto il numero di ore perse a causa delle manifestazioni sindacali sarebbe utile correggere la Carta, precisando che il Paese non si regge sul lavoro, ma sull'astensione dallo stesso. Del resto, da tempo la montagna di giorni perduti per sciopero ci consente di primeggiare nella particolare classifica europea di chi incrocia di più le braccia. E di recente si è pure toccato il record, costringendo la Cgil a chiudere il bilancio con un milione di perdita: come spiegava il Corriere della Sera di ieri, finanziare le proteste costa.  Ma il disastro finanziario, a quanto pare, non ha indotto il principale sindacato a modificare la propria linea; dunque oggi nelle città italiane sono attese migliaia di manifestanti: tutti in fila contro il governo.  Un'esibizione di forza, con tanto di rulli di tamburi. L'attivismo del sindacato più organizzato e litigioso del continente non è però garanzia di particolare tutela degli interessi dei lavoratori. Nonostante i molti funzionari in pianta stabile presso le federazioni e i 700mila delegati sindacali sparsi nelle aziende della penisola, continuiamo ad avere stipendi tra i più bassi d'Europa. Segno evidente che non bastano le Camusso a far star meglio gli operai, ma che anzi, forse proprio a causa sua e dei suoi compagni, i salari sono depressi. Anni di lotte e di rigidità contrattuali, invece di migliorare le retribuzioni, le hanno paradossalmente peggiorate. Chiunque è in grado di verificare da sé quanti stipendi servissero negli anni Sessanta per comprarsi una Cinquecento e quanto costi ora un'utilitaria. La conclusione è evidente, ma non a loro, ovvero ai padroni della contrattazione, cioè a coloro che hanno reso un mestiere il diritto alla rappresentanza dentro le aziende. Molti non hanno mai messo un piede dentro una fabbrica e neppure conoscono i meccanismi che regolano la vita delle imprese. Per loro l'approdo sindacale è garantito più da una militanza politica e da un impiego in qualche ufficio-studi legato all'organizzazione che dalla catena di montaggio. Da lì in poi, se si segue il percorso delle correnti, l'ascesa  è assicurata. Prendete per esempio il curriculum di Susanna Camusso, la capa tosta della Cgil. La sua storia dentro l'organizzazione rossa dei lavoratori comincia più di 35 anni fa, da studentessa di archeologia, quando prese a occuparsi della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, che all'epoca non era roba da archeologi ma lo sarebbe presto diventato inseguendo politiche industriali assurde. Dai banchi  universitari alla principale organizzazione dei lavoratori senza passare dal lavoro: il percorso potrà sembrare insolito, ma chiunque conosca un po' di cose di quel mondo sa che non è così e molti possono vantarne uno analogo. Il problema è che proprio grazie a poca pratica e tanta teoria i dirigenti della Cgil sono diventati il fronte del no sindacale, chiudendo la porta a qualsiasi innovazione del mercato del lavoro. No alla contrattazione di secondo livello, no alla flessibilità, no alla compartecipazione alle decisioni delle imprese, no ai cambiamenti. Il risultato è che abbiamo uno dei sindacati più arretrati d'Europa, che, a differenza di quelli tedeschi o francesi, ha dato il peggio di sé proprio nel periodo di crisi in cui era richiesta maggiore capacità di cambiare. E paradossalmente i più rigidi sono i funzionari sindacali di provenienza moderata. Camusso, per esempio, era conosciuta come socialista e non come una passionaria della lotta operaia. Eppure, come Guglielmo Epifani, il predecessore pure lui proveniente dal Psi, per stare a galla ha dovuto allearsi con la sinistra più estrema e con l'ala dura dell'organizzazione, vale a dire gli ex comunisti. Cosa ciò abbia prodotto lo si è visto da subito. La neosegretaria non si era ancora insediata nel suo nuovo ufficio che già per farsi apprezzare dai compagni che l'avevano eletta aveva proclamato uno sciopero. Inutili sono state le proteste dei rappresentanti di Cisl e Uil, la signora in rosso ha tirato diritto. Così sono arrivate altre astensioni e proteste. L'unica cosa che non è arrivata è il lavoro. Di posti neanche l'ombra e ora che la Fiat si prepara a traslocare altrove, e perfino la Svizzera è diventata un luogo in cui emigrano le fabbriche, c'è il rischio che invece di nuove imprese arrivino nuovi disoccupati. Il pericolo, a quanto pare, non spaventa i vertici della Cgil. I quali pensano che la carenza di assunti si può compensare con i neopensionati. Così, tesserando chi lascia la fabbrica, il bilancio è salvo. Quello sindacale, ovviamente. Quello del Paese si vedrà.

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